Non tutte le interazioni sono uguali

“HO FAME!!!” sputato in faccia da un giovane africano con la mano tesa a pretendere qualche euro mentre io me ne sto rilassato a prendere un aperitivo al bar è più che comprensibile. Forse inevitabile reazione per lui e doveroso monito per me. Tuttavia non il modo più efficace e veloce per arrivare a saziare la fame. Pochi minuti dopo si avvicina un suo connazionale più anziano, il volto segnato dall’esperienza, un tenue sorriso a nascondere chissà quante umiliazioni e sconfitte. Deve fronteggiare un’atmosfera già negativa. Comincia con dei complimenti a mia moglie, prosegue lodando le mie qualità morali (bravo…buono). Interpretando il mio silenzio come assenso, anziché come distanza, si spinge oltre. Legge nella mia brizzolatura i primi possibili dubbi sul perdurare della virilità, dal buono passa al “forte” e mi cinge, con delicatezza, il polso con un braccialetto di “legno duro” “come amore duro”. Ci strappa il sorriso, e i soldi.
Scontato abc del marketing – si dirà – che non coincide necessariamente con qualità civiche o competenze sociali. Quello che, banalmente, colgo dalla vicenda è però la capacità delle storie di creare legami e al tempo stesso l’importanza di capire le emozioni (altrui) per creare le storie (giuste). Vale in piazza così come sui social? Me lo domandavo mentre leggevo i risultati di uno studio dell’Università di Pittsburgh segnalatomi anche da @cannedcat secondo il quale maggiore è il tempo che i giovani adulti trascorrono sui social media, maggiore la probabilità che vadano incontro a depressione. Lo studio, che sarebbe per casistica il primo rappresentativo a livello nazionale USA, ha coinvolto 1787 (?) giovani adulti (19-32 anni) cui sono stati sottoposti questionari per il rilevamento dell’ uso degli 11 più comuni social media (Facebook, YouTube, Twitter, Google Plus, Instagram, Snapchat, Reddit, Tumblr, Pinterest, Vine and LinkedIn) nonché dei sintomi depressivi. In media i partecipanti trascorrevano 61 minuti al giorno sui SN e visitavano i loro account circa 30 volte a settimana. Più di un quarto di loro presentavano indicatori di depressione giudicati alti. E quelli che usavano i SM più frequentemente presentavano anche il maggior rischio di depressione. In particolare
Of the 19 to 32-year-olds who took part in the research, those who checked social media most frequently throughout the week were 2.7 times more likely to develop depression than those who checked least often.
Va peraltro detto, e viene riconosciuto anche dagli stessi autori, che lo studio non distingue chiaramente tra cause ed effetti. Potrebbe essere anche la depressione a indurre un maggior impiego di SN per riempire il vuoto. O appunto i social media a suscitare sintomi depressivi attraverso sentimenti di invidia verso coetanei la cui immagine viene idealizzata, oppure attraverso il sentimento di aver gettato via il proprio tempo sui social etc.
Guardandolo più da vicino lo studio si presenta a mio avviso come un invito a riflettere sulla possibile associazione – in ambo i sensi – tra social media e disturbi psichici nonché come uno spunto per alcune misure di prevenzione sulle stesse piattaforme
“the findings could be used as a basis for public health interventions leveraging social media. Some social media platforms already have made forays into such preventative measures. For example, when a person searches the blog site Tumblr for tags indicative of a mental health crisis—such as “depressed,” “suicidal” or “hopeless”—they are redirected to a message that begins with “Everything OK?” and provided with links to resources. Similarly, a year ago Facebook tested a feature that allows friends to anonymously report worrisome posts. The posters would then receive pop-up messages voicing concern and encouraging them to speak with a friend or helpline.”
E soprattutto le esposizioni ai social media non sono tutte uguali – lo dice il Dr. Primack ma anche l’esperienza di ciascuno di noi, ai tavoli di un bar così come nelle interazioni sui SN.
“Future studies should examine whether there may be different risks for depression depending on whether the social media interactions people have tend to be more active vs. passive or whether they tend to be more confrontational vs. supportive. This would help us develop more fine-grained recommendations around social media use.”
Senza sapere nulla di tutto ciò, il simpatico africano mio coetaneo è riuscito a cogliere le emozioni aleggianti sul tavolino di un bar, a trasformarle in una storia originale e divertente e con gli invisibili fili di quest’ultima a collegare più persone in rapporto produttivo e generatore di benessere. Credo avrebbe parecchio da insegnare a tutti noi #migrantidigitali alla ricerca di interazioni più soddisfacenti nella nostra agorà onlife
Foto: Ki-Jun Yoon da http://www.sueddeutsche.de/wissen/kunst-aus-dem-labor-feuerwerk-der-neuronen-1.2029365