È la pastiglia! Quante volte ho sentito ripetere queste parole per spiegare un disturbo, un malessere, dal capogiro, al mal di stomaco, al prurito al mal di piedi, insorto quando la famigerata pastiglia si trovava ancora in bocca o tutt’al più nell’esofago del/la paziente. La formulazione può essere più o meno differenziata: è colpa della pastiglia, è un effetto collaterale della pastiglia, l’ho letto sul foglietto illustrativo, su internet, me l’ha detto l’amica, un suo collega, il Prof. Tal dei Tali, io sono allergico a tutti gli psicofarmaci, tutti i farmaci mi fanno l’effetto opposto… L’obiettivo è sempre lo stesso: avere una spiegazione semplice, sintetica, efficace, rassicurante. Da assistente, dominando con maggiore o minore successo la mia irritazione, tentavo ancora di spiegare che, salvo cianuro, nitroglicerina e pochi altri, è impossibile che un farmaco eserciti un qualsiasi effetto (positivo o negativo che sia) prima di essere stato assorbito e di essere entrato nel circolo ematico. Poi ho capito che ogni mia spiegazione era inutile. Ero io ad aver causato l’effetto collaterale, prescrivendo il farmaco troppo presto, sottovalutando l’ansia del paziente, sopravvalutando un rapporto terapeutico ancora troppo fragile. (Anche) di questo dovevo tener conto prima di prescrivere un altro farmaco.
Ma la tentazione di spiegazioni facili e semplici(stiche) è indipendente dai farmaci, prolifera nella psicoterapia come in ogni altro settore, diffusa ed ubiquitaria. Se io sono come sono, se non riesco a gestire la mia vita come vorrei, è colpa del padre freddo ed assente, della madre oppressiva e dominante, della povertà, della ricchezza, della violenza, dell’invidia della cognata, del mobbing, del datore/compagno di lavoro, del licenziamento, della terapia, dello psichiatra precedente, del Prof. Tal dei Tali etc. Il canto delle sirene di una spiegazione facile e rassicurante è talmente suadente che più di una volta da terapeuta ho finito per lasciarmene irretire e colludere con il/la paziente. Salvo poi rendermi conto che non si trattava di una spiegazione ma di una trappola in cui il paziente era caduto e in cui io stesso mi ero lasciato trascinare. Identificandomi troppo con lui e con i suoi sentimenti di impotenza e mancanza di controllo e trascurando invece l’analisi critica della complessa realtà esteriore ed interiore in cui il paziente si trovava (ed io con lui).
Da queste e analoghe tentazioni di semplificazione e rassicurazione nascono le teorie cospirative dei complotti, le convinzioni cioè che un gruppo di persone si accordi segretamente per raggiungere scopi ritenuti dai più malevoli (Zonis & Joseph, 1994). Dalle scie chimiche alle bufale anti vaccini gli esempi in Italia si sprecano. Numerosi studi hanno dimostrato che il miglior antidoto contro le teorie dei complotti è l’ educazione. Ma fino ad ora è risultato difficile indicare come l’ educazione riesca ad ottenere un simile effetto. Un recente studio di un ricercatore olandese, Jan-Willem Van Proijen
Department of Experimental and Applied Psychology, VU Amsterdam, apparso sull’ultimo numero della rivista Applied Cognitive Psychology è riuscito a individuare due mediatori decisivi: la complessità cognitiva e il sentimento di controllo. Mentre un terzo cioè la sensazione soggettiva dell’appartenenza a una classe sociale contribuirebbe ma in modo attenuato e non certo. In realtà si tratta di due studi associati condotti online in Olanda l’uno sui lettori di una rivista scientifica e l’altro su un campione statisticamente significativo della popolazione olandese. Nel primo studio sono stati presi in considerazione 4 possibili fattori responsabili per l’effetto positivo dell’educazione sulle teorie dei complotti: complessità cognitiva, sensazione di controllo, autostima, stato sociale. Nel secondo studio con campionatura nazionale i risultati del primo studio sono stati messi ulteriormente alla prova e validati. Ecco i risultati:
Study 1 provides evidence for three independent mediators. People with high education level are less likely to believe in simple solutions for complex problems; they feel less powerless (and hence more in control) within their social environment, and they subjectively perceive themselves as higher in social class. These three factors jointly contribute to the relationship between education and belief in conspiracy theories. Study 2 replicated these findings for belief in simple solutions and feelings of control but not for social class. Moreover, Study 2 revealed that the mediating role of belief in simple solu- tions is due to the relationship between education and analytic thinking skills. Taken together, these studies suggest that the relationship between education and belief in conspiracy theories cannot be reduced to a single psychological mechanism but is the product of the complex interplay of multiple psychological processes. Particularly cognitive complexity and feelings of control are independent processes through which education predicts belief in conspiracy theories.
Decisivi sono dunque da un lato la capacità critica di analisi, che protegge dal pensare che per problemi complessi vi siano soluzioni semplici e dall’altro l’esperienza e dunque la sensazione di esercitare un certo controllo sulla realtà che ci circonda.
Lo stesso ricercatore ricorda che altri studi hanno dimostrato che l’effetto “protettivo” dell’educazione non si realizza però nelle minoranze, che si ritengano marginalizzate, ad esempio afro-americani, musulmani. La spiegazione sarebbe da ricercare nel fatto che l’educazione non riesce a prevenire l’identificazione con un gruppo che si senta vittima di indebite pressioni ed ingiustizie.
“I suspect that the key to explain this discrepancy is feelings of group-based oppression and marginalization…
Identification with a group that is under threat is a core pre- dictor of belief in conspiracy theories (Van Prooijen & Van Dijk, 2014) and may well supersede any effect of education”
Le conclusioni dello studio per la vita quotidiana ed il futuro mi sembrano importanti. Non si tratta tanto di smontare le teorie dei complotti una ad una spiegandone l’irrazionalità. È tempo perso. Esse nascono da un bisogno di semplificazione e sicurezza molto più (pre)potente di quello della ragione. In definitiva dal desiderio di separare il più alla svelta possibile e nel modo più semplice(istico) bene e male, amico e nemico. E si sviluppano in un’atmosfera emotiva di impotenza, tale per cui manca al singolo la sensazione di poter influenzare positivamente il mondo che lo circonda.
Come i miei pazienti che si lamentano per gli effetti collaterali del farmaco che hanno ancora in gola, in un rapporto terapeutico ancora troppo fragile, tutti noi, quando siamo pressati dalle nostre angosce (individuali e collettive, sanitarie o sociali), non ci sentiamo capiti, sostenuti, aiutati, tendiamo a cadere nella trappola paranoica delle bufale, delle teorie cospirative, pur di avere subito l’illusione di una rassicurante spiegazione. L’educazione ci può proteggere da queste trappole sviluppando in noi il pensiero analitico, la capacità critica, la sensazione di poter controllare, gestire e migliorare la complessità (liquida) in cui nuotiamo. Non all’insegna di un razionalismo freddo ma nell’apertura ad un dialogo e a un confronto che può scaldare e aiutare.
A practical implication of the present study is that through some of these mechanisms, education also may have an unintended side effect by contributing to a less paranoid society. I speculate here that these effects on conspiracy beliefs can be achieved without explicitly focusing on the validity or invalidity of specific conspiracy theories throughout an educational curriculum. Instead, by teaching children analytic thinking skills along with the insight that societal problems often have no simple solutions, by stimulating a sense of control, and by promoting a sense that one is a valued member of society, education is likely to install the mental tools that are needed to approach far-fetched conspiracy theories with a healthy dose of skepticism.
Immagine: William Turner, Tempesta di neve, battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth, 1842
Suggerimento musicale: “Qual nave smarrita”, Händel, Radamisto