Se un automobilista, per giustificare l‘incidente che ha provocato, affermasse di aver bevuto alcol prima di essersi messo alla guida o di essere addirittura un alcolista, giudicheremmo, voglio sperare, il suo consumo di alcol non come un’attenuante ma piuttosto un’ aggravante. Un comportamento/disturbo dalle conseguenze potenzialmente fatali di cui egli era consapevole e che ha volutamente ignorato con grave pericolo per gli altri (oltre che per sé). Cosa pensare dunque quando Harvey Weinstein, il produttore hollywoodiano tristemente noto per i suoi abusi sessuali sulle attrici, ha fatto sapere di essersi recato in un luogo di riabilitazione per sex-addicted, persone con dipendenza dal sesso?
Emily Bobrow in un approfondito articolo sull‘Economist, parte proprio da qui per mettere in discussione, dopo averne a lungo parlato con diversi terapeuti sessuali, lo stesso concetto di dipendenza sessuale. Anche se corre il rischio di buttare via il bambino con l‘acqua sporca, vale davvero la pena di leggere il suo lungo articolo.
Il concetto di dipendenza sessuale, di cui l‘articolista ripercorre la storia, è da sempre considerato con prudenza se non con diffidenza in ambito terapeutico. Diversi terapeuti e ricercatori ne mettono in evidenza le differenze dalle classiche dipendenze da sostanze, soprattutto alcol e da droghe, nelle quali la componente organica risulta essere anche a prima vista, per la persona non esperta, molto più evidente e rilevante. Sappiamo inoltre che vi è una certa predisposizione genetica per la dipendenza da alcol e da droghe mentre ancora troppo poco si sa su quelle non mediate da sostanze tipo quella sessuale o da computer, che poi spesso si sovrappongono. Ma sappiamo anche, ed è un peccato che l’articolista, pur così attenta, non lo riporti chiaramente, che la principale base neurobiologica di tutte le dipendenze è la stessa: il circuito della ricompensa situato nel sistema limbico quell’insieme di circuiti cioè collocati in una parte profonda del nostro cervello che sono responsabili della gratificazione di fronte agli stimoli di ogni tipo, alimentare, sessuale, cognitivo, affettivo. È il classico esperimento dei topolini che potendo stimolare, (con un pedale collegato appunto al loro sistema limbico), il circuito della ricompensa stanno tutto il giorno attaccati al pedale anche a costo di morire di fame. Il piacere che deriva cioè da tale stimolazione e dalla conseguente liberazione di dopamina è talmente intenso da far dimenticare tutti gli altri pur vitali stimoli. È quello che succede al tossicodipendente, al bevitore, al mangiatore, giocatore compulsivo, ed è bene ricordarlo a tutti noi quando siamo “presi” da una gratificazione particolarmente soddisfacente sia essa una relazione amorosa, sessuale, un impegno professionale, un’attività sociale, un hobby, uno sport particolarmente gratificante. Ci dimentichiamo di tutto il resto, anche di lavoro, amici, famiglia fino a quando veniamo riportati “alla ragione” da altri stimoli o da qualche dolorosa esperienza. Perché noi, ci diceva già Freud, siamo in grado, anzi tendiamo ad andare “al di là del principio del piacere” addirittura a contrastarlo fino ad arrivare ad agire, in una coazione a ripetere assai difficile da vincere, contro noi stessi ed il nostro almeno immediato piacere. Le dipendenze, tutte le dipendenze, pur se biologicamente supportate, (cosa non lo è?) geneticamente predisposte, non sono condizioni irreversibili ed immutabili di cui noi siamo innocenti vittime. E dunque non possono essere comode scuse per giustificare un comportamento ingiustificabile. Naturalmente la persona intrappolata nella dipendenza o in un comportamento compulsivo (sia esso di gioco o di violenza) si percepisce inizialmente spesso come una marionetta, di cui il sesso, il cibo, la droga etc tira i fili. Ma proprio questo sentirsi determinati da altro da noi è il disturbo da combattere, fino ad aiutare il paziente ad assumere, per quel poco che ne siamo capaci, la regia della nostra vita. Più che combattere il concetto di dipendenza sessuale in sé combatterei piuttosto il concetto di dipendenza e più in generale di malattia come un disturbo biologicamente determinato che in quanto tale ci solleva dunque dalle nostre responsabilità. (Per lo stesso motivo sono contrario a intendere l’omofobia come una malattia, magari da curare a spese dell’ASL). Chi ha il diabete sa quanto è difficile non mangiare dolci/mangiarli in quantità limitata ma non aiuta molto la sua salute continuare a mangiarli e dire che è colpa della malattia. Nella terapia di una dipendenza è piuttosto importante chiedersi come si è costituita, a quali bisogni (più o meno nascosti) risponde, quale eventuale vuoto cerchi di colmare, quale il tipo di personalità sottostante, quali le strategie per sentirsi un po’ meno marionette in balia dei propri impulsi pur/proprio nella consapevolezza dei nostri limiti. Il dibattito che si è aperto sul caso Weinstein è un’importante occasione per riflettere sul sessismo ancora imperante nella nostra pur sviluppata società e sconfiggerlo, forse può diventare anche un’opportunità per discutere sui limiti ma anche le opportunità che tutti, uomini e donne abbiamo a disposizione per sentirci meno dipendenti dai nostri meccanismi (biologici e/o sociali) e più liberi.
Immagine tratta da www.alcohicsguidetoalcoholism.com
Suggerimento musicale: Ben Harper, Sexual healing