#migrantidigitali

Settembre, andiamo. È tempo di migrare” scriveva 111 anni e un mese or sono D’Annunzio esortando retoricamente i “suoi” pastori alla transumanza. Nel frattempo la “migrazione” estiva delle greggi e delle mandrie da e sull’Alpe è, con tanti altri aspetti della civiltà contadina, pressoché scomparsa in Italia mentre sopravvive in quel peculiare coacervo di tradizione innovazione che è la Svizzera, ove peraltro accanto al significato di rito identitario contadino, familiare, locale ha assunto anche quello di attrazione turistica. Le migrazioni che si affacciano alla mente degli italiani di questi tempi sono – temo – assai meno pittoresche di quelle elvetiche: siano quelle delle nuove generazioni di italiani costretti a/o desiderose di recarsi all’estero per sottrarsi alla mancanza di lavoro, rispettivamente alla mancanza di una dignitosa, non autoritaria, non paternalistica cultura di lavoro. Siano quelle tragiche e non raramente letali dei profughi africani in fuga dalle guerre, dai genocidi, dalla fame dei loro paesi e separati da noi da un mare nostrum di paura, illusioni, pregiudizi, angoscia, indifferenza e insofferenza se non violenza.
Ma vi sono, almeno per la mia generazione, altre migrazioni in atto, molto meno tragiche, anzi potenzialmente stimolanti. Sono quelle dei #migrantidigitali
Il tema, noto, può essere sinteticamente riassunto con queste parole del ‘manifesto iniziativa migranti digitali   “migranti e nativi digitali hanno linguaggi, approcci culturali e competenze specifiche in buona parte diversi”
Su tale diversità vi sono ovviamente pareri diversi. Vi sono coloro che invocando più o meno dimostrate o supposte modificazioni neurobiologiche tendono quasi a fare di analogico e digitale due categorie (aristoteliche) metafisicamente disgiunte  – e qui non riesco a trattenermi dall’osservare con sospetto la tendenza a fare del “neuro-” una sorta di nuovo ipse dixit aristotelico spesso proprio in coloro che si dicono fedeli seguaci del metodo scientifico.

D’altro canto vi è invece chi constata nella prassi quotidiana piuttosto gli elementi di continuità e difficoltà simili anche nei nativi digitali

“Just because these students are digital natives, does not mean that they do not need guidance to navigate the digital world–both in terms of learning how to discern important and relevant information from a large swath of data, and also to be able to inquire and solve problems that take time, thought, and energy”.

In effetti l’approfondita indagine sociologica di Danah Boyd, che ha passato 8 anni a esplorare tutti i possibili aspetti del rapporto dei teenagers americani con i social media e tecnologie correlate dimostra che ” it’s complicated ” come dice un po’ tautologicamente ma anche efficacemente il titolo stesso del suo lavoro.

Posta sotto la lente di ingrandimento dell’osservazione scientifica la presunta omogeneità dei nativi digitali si sgrana in uno spettro molto ampio di atteggiamenti e comportamenti variegati e molteplici. Che poi è ciò che inevitabilmente accade nell’indagine sociologica, psicologica etc. quando si lascia spazio alla soggettività dell’osservato oltre che alla relativa obiettività dell’osservatore

“As I began to get a feel for the passions and frustrations of teens and to speak to broader audiences, – scrive ancora la Boyd – I recognized that teens’ voices rarely shaped the public discourse surrounding their networked lives. So many people talk about youth engagement with social media, but very few of them are willing to take the time to listen to teens, to hear them, or to pay attention to what they have to say about their lives,online and off. I wrote this book to address that gap. Throughout this book, I draw on the voices of teens I’ve interviewed as well as those I’ve observed or met more informally”.

Non meno complicata è la stessa suddivisione cronologica delle generazioni. Prova ne sia la diversità di definizione che si riscontra per lo stesso concetto nelle diverse lingue in wikipedia, da cui traggo con grande sforzo, questa successione
1933–1945 “Matures”
1946–1964 “Boomers”
1965–1976 “Generation X”
1977–1998 “Generation Y”
1999 – …. “Generation Z”
che si riscontra così precisa e rigorosa solo nella versione tedesca…
Le difficoltà aumentano esponenzialmente quando si tratta di individuare i criteri sociologici, culturali, tecnologici, psicologici o altro attraverso i quali caratterizzare e dunque denominare le generazioni. Ne elenco volutamente a casaccio alcune: Millennials, generazione 1000 Euro, generazione Telemaco, generazione Prozac, generazione me me me, generazione perduta, generazione narciso, società liquida, età della svergognatezza,  dell’incertezza, dell’indecisione – titolo tra l’altro di un simpatico romanzo di Kunkel  descritto (o venduto ?) come manifesto di una generazione. E se ne  potrebbero aggiungerne molte altre.
Questa apparente e da me volutamente forzata confusione nominativa e metodologica mi sembra sia però anche il punto di forza oltre che di debolezza della ricerca su continuità/discontinuità tra migranti e nativi digitali. Se possiamo disporre di tante svariate denominazioni è anche perché i punti di vista (sociologico, etnologico, culturale, tecnologico, psicologico, psicanalitico, neurobiologico, demografico etc.)  da cui osservare il fenomeno non sono mai stati così interconnessi e intercomunicanti. Con il rischio da un lato di indebite contaminazioni metodologiche ma dall’altro il vantaggio di una rappresentazione quantomai variegata e che aspira alla visione d’insieme. In epoca di big data e di interconnessione del sapere è fin troppo banale affermare che una conoscenza più approfondita della generazione dei nativi digitali e indirettamente della nostra di migranti digitali ci può venire solo da un serio e paziente accumulo dei dati più disparati e dalla loro integrazione secondo concetti metodologicamente corretti: in questo senso sia l’indagine su numeri caratteristiche, impiego dei Millennials nelle aziende  potrebbe utilmente sposarsi ad un’analisi su eventuali modificazioni dell’inconscio, rilevate non solo dagli psicanalisti – che se la sbrigano spesso con l’inaridimento – ma riscontrabili ad esempio nella nuova Graphic novel o negli stessi social media, utilizzabili come specchio e possibile mezzo d’accesso all’inconscio stesso. Ricordo al riguardo che lo psicoterapeuta Aaron Balick suggerisce brillantemente di considerare Internet anche come una sorta di universale proiezione di parti di noi stessi. Così come il sogno è per Freud la via regia all’inconscio, Balick si domanda se “le parti di noi stessi che proiettiamo in Internet, le parole dei nostri tweets e dei nostri blogs possano essere una sorta di sogno sociale, “un’associazione libera” socio-culturale, dalla quale possiamo trarre comprensione per il nostro inconscio collettivo ”.
In questa inte(g)razione tra vecchi e nuovi saperi, metodi, strumenti, tecnologie, e nei relativi scambi per fortuna anche umani che ne derivano è forse insita anche la possibile via di riduzione del gap tra cultura analogica e digitale. Uno degli impegni dei #migrantidigitali: “vogliamo impegnarci nella conoscenza reciproca e collaborazione tra nativi e migranti”.
Nella consapevolezza peraltro che tale che tale gap non potrà mai essere annullato. È infatti (anche) questo gap che separa la nostra dalla generazione successiva. Rincorrere i nativi digitali sul loro terreno ha il non ininfluente vantaggio di farci sentire un po’ meno analogicamente anziani ed illuderci per un momento di poter traghettare con loro e i loro nipoti sulle sponde del digitale. Sta a loro esplorare (costruire?) nuove interconnesse foreste digitali. Forse non è poco riuscire/esser riusciti a trasmettere loro il desiderio di farlo, magari senza troppo limitare con il nostro fardello analogico il loro futuro, che è “costruito – come ci ricorda De Biase – dalle narrazioni che ne diamo”.