La ferocia

“Noi non siamo noi….siamo guidati da forze di cui non siamo consapevoli, agiamo senza sapere perché, diciamo cose il cui movente è ignoto, crimini senza colpa e morti senza causa apparente.” Non è Freud a parlare e nemmeno un deterministico neuroscienziato contemporaneo. A pensare così è Michele, il fragile, coraggioso e ostinato protagonista, anzi uno dei protagonisti familiari che si alternano sulla tragica scena di “La ferocia“, l’ultimo romanzo di Nicola Lagioia.
Ma la vera protagonista del romanzo dello scrittore barese, sul quale ha richiamato la mia attenzione una recente intervista Twitter curata da @atrapurpurea, è la ferocia stessa, che seziona le carni e le menti di tutti i personaggi, con la precisione più che di un chirurgo, di un impassibile anatomo-patologo, la passione di un amante vorace, la finezza discriminativa di uno psicanalista esperto. La ferocia (della vita) non risparmia nessuno nel romanzo e nessun personaggio risparmia, consciamente o inconsciamente, dolori all’altro, anzi alle stesse persone che più ama. Non a caso la patologia la fa da padrona. Il romanzo comincia con l’investimento di una giovane ragazza che corre per strada di notte nuda e sanguinante, prosegue con l’amputazione di un arto al suo involontario investitore, si snoda attorno alla falsa ipotesi del suicidio della ragazza, Clara, descrive la precedente autodistruzione di quest’ultima, dalla perturbante gioia pre adolescenziale
“Pazza di gioia, aveva la conferma che il mondo non era fatto di nudi oggetti materiali. Non era fatto neanche di persone, ma di presenze. Io e lui sprigionavamo l’energia dei morti”
agli anni giovanili della cocaina e di un masochismo travestito da promiscuità sessuale
“odore di palude e foglie putrefatte prima che le acque facessero sentire la loro presenza, cingendole la vita, gonfiandole vestito come un paracadute”.
Nel romanzo abbondano chirurghi, anatomo-patologi e oncologi, gli psichiatri vengono minacciati. Mentre a svelare l’enigma di questo che solo impropriamente potrebbe esser chiamato un noir psicologico è un ragazzo reduce da un ricovero in una clinica psichiatrica per una grave psicosi. Michele appunto. Che però, proprio per la sua involontaria ed invincibile tendenza a intravedere la decomposizione della morte in tutto e tutti, è anche l’unico a non lasciarsi abbagliare dalle illusioni dell’apparenza, fino ad arrivare ostinatamente alla verità sulla morte della sua oltre ogni limite amata sorellastra Clara e ad innescare l’epilogo.
La ferocia dei sentimenti tra i membri della famiglia ed in particolare tra padre e figli è tale e la profondità d’analisi così spietata da avermi fatto venire alla mente I fratelli Karamazov (con un fratello in meno e due sorelle in più ). È paragone certo assai imbarazzante ma simile è l’atmosfera in cui il libro mi ha precipitato nel corso di febbrili letture notturne – seguite a un mio personale inverno: una lotta familiare all’ultimo sangue, priva della più elementare pietas, anche nei confronti di Clara, la cui stessa morte viene utilizzata in un gioco senza fine di ricatti e minacce. Il tutto dietro le apparenze della magnificente opulenza di una ricchezza da poco raggiunta nella capitale della Puglia in ascesa. Certo anche questo avrà contribuito alla coinvolgente immediatezza del mio corpo a corpo con il romanzo. Leggere del porto di Manfredonia, del Gargano, di Mattinata evoca in me lontani ricordi adolescenziali di terre e persone che sono le mie, dimenticate, radici. (Da dove è partito mio nonno paterno per un emigrazione in Nord-Italia che io ho proseguito, chissà quanto inconsciamente, fino in Svizzera.) La calda e solare Puglia che ci viene incontro nel romanzo regala panorami di incomparabile bellezza, resi da una lingua altrettanto calorosa, ricca, vivace, a tratti genialmente barocca, sempre nitida ed efficace.
“Davano l’idea di una grande mano nera che attraversi il vuoto disgregandosi in mille punti per raddensarsi in una forma equivalente ma mai identica , com’è mutevole e forse equivalente lo stupore di un uomo che li guardi da lontano. Pivieri. In volo sul Gargano.”
Ma anche la bellezza naturale nasconde l’insidia della feroce voracità umana, capace di occultare veleni (cobalto, piombo, manganese) anche nelle riserve naturali. Così
” Un buon numero di pivieri iniziò a precipitare all’improvviso. Morivano in volo”.
A maggior ragione le costruzioni dell’uomo portano il segno della corruzione divenuta sistema, stile di vita, che tutto permea e sulla quale tutta la vita sociale della Bari del romanzo è organizzata. I centri commerciali squallidamente immensi, anonimamente rumorosi in cui Michele incontra un suo vecchio compagno ridotto all’attività di “uomo-rana”, sono l’espressione stessa di uno sviluppo sociale ed economico altrettanto feroce e distruttivo di quello umano. Il bisturi sociologico di Lagioia non è meno affilato di quello psicologico. Lo spaccato che ne risulta non meno squallido, tra collusioni di interessi e vizi, compiacenti omertà, minacce velate, ricatti travestiti da interessamento. Ma il racconto non scade mai a moralistica denuncia, rimanendo invece sempre fedele alla contraddittoria ricchezza dell’esperienza umana. Meglio di ogni PET e di discutibili semplificazioni psichiatrico-psicologiche-criminologiche, la narrazione esprime, anzi si fa essa stessa tortuosa e insanabile ambivalenza, che entra prepotentemente in risonanza con la nostra.
“Noi non siamo noi”.
Foto: La visita serale. Renato Guttuso www.guttuso.com