Ad essere Charlie (sulle pic) sono rimasti in pochi, ammesso che mai sia stato possibile esserlo. Le foto agghiaccianti del poliziotto musulmano che sta per essere ucciso davanti agli occhi di tutti noi sono state sostituite da quelle dei milioni di francesi scesi in piazza e poi da quelle dei tanti orrori e delle poche buone notizie quotidiane. La rabbiosa e balbettante impotenza dei primi giorni successivi all’ignobile attentato parigino ha lasciato il posto all’orgogliosa ed eloquente rivendicazione di libertà e di democrazia, alle analisi approfondite e da ogni angolazione culturale, alla rivendicazione di analoga indignazione e impegno per tante altre tragedie mondiali e infine al chiacchiericcio quotidiano, off- e online. Il lutto del “lacrimosa” di Mozart è stato sostituito dalla solennità dell’allegretto della settima di Beethoven e poi dalle canzonette.
Né potrebbe essere diversamente.
La nostra capacità di soffrire è terribilmente limitata, fatica a concedere un minimo di attenzione alla disgrazia del vicino e spesso è già messa a dura prova dalle difficoltà familiari per non dire di quelle personali. Se è vero che il dolore insegna (Πάθος μαθος), – o meglio nel corso della sua elaborazione possiamo forse imparare qualcosa – è altrettanto vero che, a concentrazione elevata, il dolore è quanto mai tossico, pressoché insopportabile. Al punto da trasformarsi rapidamente in insostenibile ipocrisia, sacrificale mistificazione o in doloroso cinismo, inaccettabile razzismo.
È forse azzardato a questo punto, ma non credo immotivato, domandarsi se i social networks e il digitale, così innovativi anche in molti campi della salute, abbiano qualcosa da offrire nell’elaborazione collettiva di eventi di perdita traumatica e lutto sociale. Non si tratta ovviamente di attendersi soluzioni su un tema che costituisce per antonomasia il cruccio dell’umanità, quanto piuttosto di analizzare eventuali trasformazioni delle modalità di elaborazione collettiva di avvenimenti tragici/traumatici per l’intera comunità. Se l’elaborazione della perdita e del dolore rimane sempre processo individuale che neanche il più amorevole dei partner e il più caro degli amici reali ci può togliere, si può riflettere su come la condivisione e la digitalizzazione possano influenzare la dinamica di elaborazione del lutto collettivo.
Innanzitutto mi domando se sia davvero così come sembra suggerire @mante nel suo bel post Provo a pensare e cioè che il pensiero debba/possa nascere “in modo indipendente dagli opprimenti dolore e rabbia (è assurdo che persino li si debbano ricordare)”.
Mi sembra piuttosto vero che dalle stesse insopportabili e inevitabilmente esagerate reazioni emozionali cresce una riflessione razionale che prende poi posizione sulle emozioni vissute. È la (solita) storia dell’empatia che può svilupparsi solo se prima c’è una immedesimazione emozionale (mettersi nei panni di lui/lei) e in un secondo momento un distanziamento razionale tra me e il/la mio/a interlocutore/trice. Da questo punto di vista i SN svolgono un ruolo straordinario, che non credo sia fuori luogo paragonare, con le dovute distinzioni, a quello che per i greci ha avuto il teatro “il mezzo [del popolo] per scoprire sé stesso, per la conquista di una soggettività collettiva”, foriera di importanti conseguenze politiche democratiche. Certo sappiamo che sui SN non incontriamo Eschilo, né Sofocle, né Euripide e neanche Aristofane, per quanto aver l’opportunità di leggere via TW qualche pensiero di Edgar Morin o Sacks o Floridi o mille altri non mi sembra poi così da poco. Sui SN prevale l’immedesimazione emotiva, spinta talvolta, spesso, fino all’eccesso. Essa può però diventare a mio avviso proficuamente catartica a condizione che dal contagio emotivo inconscio dei like e dei RT si passi ad una vera e consapevole empatia. Il carattere inconscio del contagio emotivo sui SN è stato definitivamente dimostrato dallo studio poco etico ma a mio avviso scientificamente assai rilevante di Facebook. Nei giorni successivi all’attentato parigino ondate di impotenza, rabbia, aggressività, odio hanno solcato i NT inducendo maremoti emotivi che sono stati certamente rilevati dagli strumenti di misurazione metrica.
Come passare però dalle ondate emotive alle profonde riflessioni del coro? Dentro di me il passaggio è avvenuto nel momento in cui ho visto su TW l’immagine riportata. Aristotele e Averroé in un colloquio immaginario sullo sfondo di verdi ed armoniosi prati. Il dialogo reso possibile dalla tolleranza filosofica e storicamente realizzatosi anche se per breve tempo (“epoca d’oro” di Cordova) tra religioni diverse, ha per un momento alleviato
la mia impotente rabbia per la crudeltà umana e mi ha regalato un briciolo di (illusoria) fiducia nella cultura. L’arte, per quel poco che sono capace di gustarla, ha interrotto il circolo vizioso delle mie emozioni e mi ha aiutato a distanziarmene, prendendone consapevolezza. Sospinto da quel tenue filo, ho condiviso quello ed altri tweet con altri, ho sostenuto con passione il bel # di radio 3 #piùculturamenopaura Sono poi andato a ricercare studi sul rapporto tra arte e salute e mi sono lasciato piacevolmente sommergere da armoniose onde di ricerche. Che dimostrano la capacità dell’arte, delle arti di influenzare positivamente il nostro stato fisico e psichico inducendo una condizione di benessere.
I molteplici e interattivi rapporti tra arte e salute sono ben rappresentati da questa infografica
che insieme con tutti i più recenti e significativi studi sull’argomento è raccolta nell’eccellente Framework AESOP 1 “a Framework for developing and researching arts in health programmes”
Non è il mio un panegirico dell’arte, servita digitalmente o via SN, né tanto meno dell’arte-terapia. Ho troppo rispetto della sofferenza psichica e della terapia per affermare sbrigativamente che “Art is therapy” e che è a portata di click. La terapia è una cosa terribilmente seria, che si fa, secondo me, in due – off o online- o in gruppo, solo quando un’accertata sofferenza psichica lo richiede.
Esistono tuttavia transitorie condizioni di malessere individuale e collettivo che l’arte ci può aiutare ad alleviare. La consolazione della filosofia e delle arti è nota da tempo. Vi rifletteva modernamente anche Luca De Biase poco tempo fa. La modalità di accesso alle stesse è divenuta però infinitamente più facile e giocosa. E l’immediata condivisione con altri di tale consolazione in momenti emotivamente significativi può rappresentare una concreta possibilità di elaborazione dei propri stati interiori.