In un recente editoriale di Lancet dal significativo titolo “The quality narrative in health care” gli autori constatano la discrepanza tra ciò che sappiamo e ciò che facciamo (“what we know and what we do”) in tema di salute e citano un caso evidenziato dalla commissione della salute di Londra: i pazienti con psicosi hanno un’aspettativa di vita di 14 anni inferiore agli altri a causa della separatezza (più che separazione) tra servizi psichiatrici e somatici. Una separatezza che non consente la stessa qualità di assistenza medica e di prevenzione sanitaria per i pazienti psichiatrici riservata agli altri.
Vi sono ragionevoli motivi per ritenere che l’ esempio londinese non sia isolato. In Italia tali discrepanze – se non vogliamo chiamarle paradossi – abbondano a partire dal banale esempio dei tempi di visita psichiatrica. A fronte di conoscenza sempre maggiori che richiedono a loro volta accertamenti sia psicologici che neuroscientifici sempre più approfonditi – oggetto di interminabili dibattiti ai congressi e sulle riviste scientifiche- i tempi per il colloquio psichiatrico sembrano ridursi spesso a infinite quanto frettolose checklist destinate più a strutturare la mente degli esaminatori che a raccogliere la sofferenza dei pazienti. Con tutto il rispetto per l’intelligenza e la genialità umana, fatico ad immaginare che Bleuler, Jasper o Freud riuscissero a far diagnosi/terapia in 15-20 minuti (comprensivi di interruzione per breve colloquio al cellulare per tranquillizzare il paziente ansioso visto la settimana prima), tempo medio di consultazione in molti servizi psichiatrici, che spesso si fregiano dall’aggettivo universitario.
Al tempo stesso è decisivo che evidenza scientifica e qualità della cura siano divenute negli ultimi anni, almeno teoricamente se non sempre concretamente, “narrativa” anche nella assistenza psichiatrica, richiedendo a tutti gli operatori del settore non ideologia ma metodo scientifico e spirito critico, non buona volontà ma best-practice.
Oggi nessun terapeuta potrebbe seriamente permettersi di affermare quello che pur provocatoriamente scriveva Hillman nel 1983 suo splendido “Le storie che curano”: “ormai sappiamo che la psicoterapia è inutile: raramente i sintomi nessuno guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gli impieghi trovati; dipendenze, depressioni, non sono evitati. I miei colleghi mi rammentano le statistiche, secondo cui per chi ha avuto un trattamento psicologico e per chi invece è stato curato con farmaci o lasciato a se stesso il risultato è più o meno il medesimo.”
Oggi sappiamo che la terapia più efficace nella gran parte dei disturbi psichici è quella combinata, farmacologica e psicologica insieme, che garantisce ad esempio nella depressione una guarigione nell’80% dei casi. Sappiamo inoltre che diversi tipi di psicoterapia sono pure molto efficaci anche da soli nel trattamento dei disturbi psichici. Non solo la terapia cognitivo-comportamentale, cui va riconosciuto il merito di essere stata la prima ad aver lasciato scientificamente valutare i propri trattamenti, ma anche la terapia di tipo psicodinamico, ispirata cioè all’analisi freudiana nel tempo opportunamente modificata, è risultata essere efficace contro i principali disturbi mentali. Recentemente sono stati inoltre individuati potenziali biomarker che potrebbero presto consentire di discriminare in partenza tra pazienti depressi che rispondono i farmaci e altri che rispondono alla terapia cognitiva così come biomarker capaci di indicare quali pazienti depressi risponderebbero e quali no alla psicoterapia di tipo psicodinamico
La separatezza tra psicoterapia e farmaco terapia, tra psichico e organico, a lungo praticata e fomentata tanto da psicanalisti, psichiatri organicisti, cognitivisti è per fortuna oggi, almeno teoricamente, superata. Anche perchè il paziente è uno solo. Come brillantemente scrive la mia vicina di blog, Cristina Cenci “una sorta di riduzionismo elitario, ha spinto la medicina narrativa a organizzarsi intorno alla illness, alla raccolta del vissuto di malattia, come se la disease fosse di pertinenza solo del medico e la sickness del sociale. Il racconto della malattia online mostra invece che il paziente non vuole parlare solo del suo vissuto, vuole parlare della disease, dei sintomi e dei farmaci”
La difficoltà, la sfida, sta proprio nel far fronte alla molteplicità e complessità dei bisogni del paziente aiutandolo a trovare un sempre precario e perfettibile momento di integrazione tra disease e illness, tra obiettività e soggettività, tra biologico, psichico e sociale, un’integrazione, che inevitabilmente dipende (anche) dal grado di integrazione del terapeuta. La complessità è d’altro canto canto la cifra della nostra epoca, come ci ricorda anche Piero Dominici, auspicando un’integrazione dei saperi “dentro la società interconnessa” “La pluralità delle dimensioni dell’umano” e dunque dei livelli di comprensione e di narrativa è la chiave per comprendere la straordinaria trasformazione attuale, scrive De Biase nel suo homo pluralis.
Questa pluralità ha la sua radice dentro di noi, dentro la ricchezza e contraddittorietà del nostro animo, che prima ancora di sapere e fare, sente, con quella caotica e straordinaria ambivalenza che è “croce e delizia” del nostro quotidiano. La tradizione psicoanalitica e fenomenologica ci ha insegnato che la riduzione del gap tra sapere e fare passa innanzitutto attraverso questo sentire (“einfühlen”) vivere i sentimenti che il paziente sperimenta, quelli che io come terapeuta e prima ancora come uomo/donna induco in lui/lei e quelli che lui/lei induce in me. Naturalmente attraverso il filtro (scientifico) della riflessione su transfert e contro transfert per non agire con/contro il paziente ma concedergli invece spazio per la comprensione interiore, attraverso la stimolazione della sua attività riflessiva e immaginativa . In questo senso l’insegnamento di Hillman e dei “progenitori” (Freud, Jung, Adler) cui egli si ispira, è ancora attuale. “La psicoterapia è un’educazione all’abilità immaginativa” alla narrazione, interminabile, della nostra storia nel tentativo di comprenderla. E la narrazione letteraria – ci dice, anzi ci fa sentire Borgna in ogni parola della sua opera sospesa tra clinica e letteratura, – si presenta come una straordinaria via d’accesso alla nostra interiorità, spesso segnata dal dolore, che è anche il punto di avvio di ogni psicoterapia. “Ripensare al dolore… – scrive Borgna– significa ripensare alla fragilità della condizione umana”. “Sono fragili , e si rompono facilmente, non solo quelle che sono le nostre emozioni e le nostre ragioni di vita, le nostre inquietudini, le nostre tristezze e i nostri slanci del cuore; ma sono fragili, e si dissolvono facilmente anche le nostre parole” Anche quelle spesso trionfanti della conoscenza, se non sono accompagnate dalla consapevolezza della fragilità del nostro sentire.
Suggerimento musicale:
E. Elgar, Dream Children, allegretto
Immagine @GroupeDiaclase