L'incertezza della diagnosi (di Trump).

Donald Trump è un narcisista? La domanda è più che retorica. Forse sarebbe più utile chiedersi se alla domanda siano tenuti a rispondere i singoli cittadini al momento del voto o gli psichiatri/psicoanalisti/psicologi come categoria professionale. Negli USA il dibattito sullo stato di salute mentale di Trump e sul giudizio da darne (o meno) da parte delle suddette categorie professionali è attualmente assai acceso e le posizioni, ovviamente, divergenti.
35 tra psichiatri, psicoanalisti e terapeuti hanno inviato una lettera al New York Times il 13 febbraio scorso sostenendo che Trump presenta una seria instabilità emotiva tale da non consentirgli di prestare servizio con sicurezza come presidente.

“Mr. Trump’s speech and actions demonstrate an inability to tolerate views different from his own, leading to rage reactions. His words and behavior suggest a profound inability to empathize. Individuals with these traits distort reality to suit their psychological state, attacking facts and those who convey them (journalists, scientists).
In a powerful leader, these attacks are likely to increase, as his personal myth of greatness appears to be confirmed. We believe that the grave emotional instability indicated by Mr. Trump’s speech and actions makes him incapable of serving safely as president.”

Il giorno successivo un illustre collega Allen Frances, responsabile tra l’altro della task force che ha stilato il DSM IV, (la penultima versione cioè del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ha replicato, in una brillante ed icastica lettera allo stesso quotidiano, che Trump, pur potendo essere anche un narcisista di prima classe, non è affatto un malato mentale e che lo scontro per contrastare la sua ignoranza, incompetenza, impulsività e il suo tentativo di conseguire poteri dittatoriali va combattuto sul piano politico non su quello psicologico. Vale la pena riportare per intero le sue efficacissime parole

“Fevered media speculation about Donald Trump’s psychological motivations and psychiatric diagnosis has recently encouraged mental health professionals to disregard the usual ethical constraints against diagnosing public figures at a distance. They have sponsored several petitions and a Feb. 14 letterto The New York Times suggesting that Mr. Trump is incapable, on psychiatric grounds, of serving as president.
Most amateur diagnosticians have mislabeled President Trump with the diagnosis of narcissistic personality disorder. I wrote the criteria that define this disorder, and Mr. Trump doesn’t meet them. He may be a world-class narcissist, but this doesn’t make him mentally ill, because he does not suffer from the distress and impairment required to diagnose mental disorder.
Mr. Trump causes severe distress rather than experiencing it and has been richly rewarded, rather than punished, for his grandiosity, self-absorption and lack of empathy. It is a stigmatizing insult to the mentally ill (who are mostly well behaved and well meaning) to be lumped with Mr. Trump (who is neither).
Bad behavior is rarely a sign of mental illness, and the mentally ill behave badly only rarely. Psychiatric name-calling is a misguided way of countering Mr. Trump’s attack on democracy. He can, and should, be appropriately denounced for his ignorance, incompetence, impulsivity and pursuit of dictatorial powers.
His psychological motivations are too obvious to be interesting, and analyzing them will not halt his headlong power grab. The antidote to a dystopic Trumpean dark age is political, not psychological.”

Un altro illustre psichiatra infine, per anni presidente dell’associazione americana degli psichiatri, J. Lieberman mantiene una posizione neutrale e si rifiuta di prendere posizione, appellandosi a una regola (7.3) del codice etico dell’ American Psychiatric Association. Tale regola, detta anche Goldwater perché nata dal caso analogo del Sen. Goldwater candidato nel lontano 1964 alla presidenza degli Stati Uniti e ritenuto mentalmente inadatto dalla maggioranza degli psichiatri del tempo, vieta agli psichiatri di fare dichiarazioni sullo stato di salute di una persona pubblica se non l’hanno esaminata di persona e se non hanno ricevuto il consenso da parte della persona stessa di esprimersi al riguardo. Regola ovvia, si direbbe oggi, eppure…
Il dibattito suona a noi italiani molto familiare. Tutti ci ricordiamo quanto sia stato pubblicamente dibattuto, con toni più o meno dignitosi, lo stato mentale e morale di Berlusconi. In Italia, paese per tradizione antiscientifico, la questione è stata posta su un piano morale, anzi moralistico, chiedendosi se Berlusconi avesse i requisiti morali per governare il paese. In America, patria dell’innovazione scientifica, il dilemma è stato incardinato su binari (pseudo)-scientifici. Ma come? E con quali risultati?
Confesso che l’illustre consesso di 35 psichiatri/psicoanalisti e psicoterapeuti che partoriscono conclusioni che qualsiasi cittadino dotato di buon senso saprebbe tirare dopo un dibattito televisivo suscita in me molta tristezza (e una certa irritazione). Per l’immagine scorretta di povertà scientifica che trasmette della psichiatria e della psicoanalisi. E ancor di più per la presunta pretesa (platonica) che siano i nuovi filosofi, psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti a decidere chi può governare. (Ma se non riusciamo neanche a metterci d’accordo tra noi sulle diagnosi!)
Le argomentazioni brillanti, icastiche ( e non certo prive di consapevolezza di sé) di Allen Frances centrano alcune questioni molto importanti. Innanzitutto il fatto che per la diagnosi di un disturbo di personalità è sempre necessario anche un significativo disagio della persona stessa e/o di chi sta intorno a lui e inoltre un certo grado di disabilità in vari ambiti della sua vita. Il messaggio è chiaro e molto importante: il malato mentale è una persona che soffre. (Proprio nel caso del disturbo narcisistico e del disturbo antisociale può però anche far soffrire chi gli sta intorno). Ma come fa il professor Frances dal suo divano a sapere se l’uomo Donald Trump soffre e ancor di più se soffrono gli uomini e soprattutto le donne che gli stanno intorno? E chi lo autorizza a esprimere pubblicamente la propria non-diagnosi?
Anche Lieberman nella sua scelta della neutralità pone questioni rilevanti, in particolare quella del rapporto tra la psichiatria e il potere ricordando ad esempio il caso dei dissidenti sovietici diagnosticati come mentalmente malati prima di essere costretti a ogni sorta di privazioni e torture. Il cammino della psichiatria è purtroppo segnato, come ci ricorda il Foucault di Storia della follia ,  da un rapporto di sudditanza acritica nei confronti del potere cui la psichiatria ha spesso fornito gli strumenti teorici per sottomettere, estromettere ridurre all’impotenza, al silenzio il diverso il ribelle, l’altro da noi che ci fa paura. Ma anche quando si oppone altrettanto acriticamente al potere negando la malattia mentale – come ci ammoniva Jervis – o attribuendo etichette diagnostiche a distanza con troppa imprudente generosità, la psichiatra non rende un buon servizio a sé stessa e soprattutto ai malati che dovrebbe servire. Dimostra piuttosto un imbarazzante invidia nei confronti del potere attraverso il discredito pseudo-scientifico dei potenti.
Personalmente credo che la psichiatria abbia già distribuito sufficienti giudizi in passato E che noi tutti come cittadini più che di risposte definitive o di emozioni trascinanti abbiamo bisogno di stimoli per riflettere, divenire consapevoli della nostra ignoranza e aumentare la nostra conoscenza, accettando la nostra incertezza e convivendovi al meglio.
Come sostiene con brillante eleganza Floridi nel suo The 4 Revolution e riassume in un’intervista all’Espresso  l’educazione ha sempre avuto lo scopo di aumentare la conoscenza e di ridurre invece la mancanza di informazione di cui siamo consapevoli (“insipience”), l’informazione che non sappiamo di non avere (“ignorance”) e l’incertezza, l’informazione cioè su cui siamo incerti. Nel caso specifico di Trump la mancanza di informazioni di cui siamo consapevoli (insipience) potrebbe essere quella relativa alle sue mosse future, quella che non sappiamo di non avere (ignorance) è quella legata a eventuali metodi, strategie, poteri di cui ignoriamo l’esistenza per sconfiggerlo politicamente; l’incertezza infine è come applicare al meglio democrazia e educazione per vincere la battaglia.
In un mondo come il nostro caratterizzato proprio dalla rivoluzione dell’informazione l’incertezza è però già di per sé un traguardo prezioso. Nella già citata intervista a Chiusi Floridi sintetizza così: “Informazione uguale domanda più risposta; incertezza uguale domanda, ma senza avere la risposta; ignoranza è non avere neanche la domanda. Ecco, la cultura è ciò che fa passare dall’ignoranza all’incertezza; noi invece pensiamo sia il passaggio dall’incertezza all’informazione. Non è così. È quando finalmente sei in grado di porre le domande giuste che sei una persona acculturata”. E  puoi farti autonomamente un giudizio su Trump, senza che gli psichiatri lo diano per te.
Immagine tratta da @Nebenspalter, 1.12.2016 (“this 4 years will soon be over”)
Suggerimento musicale: Rachmaninoff, Variazioni su La follia di A. Corelli, al piano V. Ashkenazy