Le recenti imponenti manifestazione dei giovani per il clima dimostrano, tra l‘altro, che sono in tanti a desiderare il futuro. Può apparire scontato ma non lo è, visto che molti negli ultimi tempi sembrano piuttosto volere, a tutti i costi, il passato, un passato invero idealizzato ed utopico, e la sua restaurazione. Retrotopia, come diceva Baumann. Il futuro però bisogna oltre che desiderarlo, anche immaginarlo, narrarlo (De Biase), costruirlo. Come guardare al futuro?
Luigi Tonoli, nella sua relazione al convegno Futuro tra paura e speranza illustra come guardavano al futuro i greci dell’età classica in quell’intreccio di paura e speranza che loro chiamavano Ελπίς (Elpis) “Il greco elpis designa, infatti – dice Tonoli – sia la previsione di un male (e quindi equivale ai nostri concetti di paura o timore) che la previsione di un bene (e, in questo caso, corrisponde alla nostra speranza).“ Ma come nasce la Elpis, la paura/speranza del futuro per i greci? Ce lo racconta molto bene il poeta Esiodo nelle Opere e i giorni. Tonoli riassume così:
“Gli uomini – racconta il poeta – vivevano sereni, privi dell’angustia del male e del dolore. Poi entrò in scena Prometeo e con lui, attraverso il conflitto con gli dei e la separazione dal loro mondo, ebbe inizio la storia dell’umanità. Il primo episodio della contesa fra l’eroe e il dio è, nelle Opere e i giorni, solo evocato. Prometeo aveva ingannato Zeus nella divisione delle carni delle vittime sacrificali, facendo in modo che il padre degli dei, a cui spettava la prima scelta, ingannato dall’apparenza, optasse per le ossa spalmate di grasso, lasciando involontariamente agli uomini le carni più succulente.
Il Cronide per punizione nascose il fuoco agli uomini, ma Prometeo rimediò sottraendoglielo con l’astuzia e riportandolo sulla terra nascosto dentro una ferula cava.
Zeus allora, adirato, decise di mandare agli uomini un male del quale essi, però, si sarebbero compiaciuti, circondandolo d’amore.
Ordinò a Efesto di intridere terra con acqua, di infondervi voce umana a formare un’amabile figura di vergine, a cui le dee aggiunsero i loro doni: la bellezza, la grazia, la persuasione, la seduzione irresistibile, la conoscenze dei lavori femminili, come la tessitura. Le Ore, figlie di Zeus, dalle belle chiome, le intrecciarono collane di fiori di primavera e Pallade Atena adattò ogni ornamento al suo corpo. Ermes, invece, da par suo, la dotò di un sentire impudente e di scaltri costumi, rendendola abile nelle menzogne e nei discorsi ingannevoli. […] Fu chiamata Pandora, perché tutti gli abitatori dell’Olimpo la offrirono come dono ai mortali. Poi fu mandata ad Epimeteo (colui che vede dopo), il quale, ammaliato, la accolse, ignorando gli avvvertimenti del fratello Prometeo (colui che vede prima) che l’aveva messo in guardia dall’accettare alcunché da Zeus.
Pandora portava con sé un enorme vaso che conteneva tutti i mali. Mossa dalla curiosità, tolse il coperchio e l’umanità, che prima viveva al riparo dal male, dalla fatica, dal penoso lavoro e dalle malattie portatrici di morte, fu travolta dagli affanni luttuosi fuoriusciti dal vaso
[…]
Per volere di Zeus, Pandora – il male del quale gli uomini, nel piano del dio, si sarebbero compiaciuti – ripose il coperchio prima che potesse uscirne l’ultimo male. Così sul fondo rimase la Speranza.“
Tonoli aggiunge però che „in un’altra versione del mito (Babrio) , il vaso contiene tutti beni e sul fondo rimane
comunque la speranza. Quindi essa a volte giace al fondo dei mali, altre al fondo dei beni.“
Perché? è legittimo chiedersi. Appunto perché Ελπίς in greco è concetto ambivalente che “indica lo stato interiore, emozionale, che la persona assume nei confronti del futuro e dell’incerto”, dunque l’inclinazione verso la paura o verso la speranza. Elpis è dunque un male “che può essere anche un bene, – aggiunge Tonoli – in primo luogo perché la previsione dei mali può indirizzare l’azione umana ad evitarli; in secondo luogo perché dallo stato di disperazione può nascere, come reazione emotiva, la buona speranza, quella che, preso atto dell’inevitabile, apre a quello stato interiore grazie al quale l’uomo continua a vivere fiducioso anche quando si sono infrante tutte le speranze”
Questa forma di speranza, direbbe Fromm , è “uno stato dell’essere”. Havel, che di disperazione e speranza aveva fatto esperienza personale nelle prigioni della Cecoslovacchia oppressa dai Russi, scrive nel suo, The Impossible Will Take a Little While: A Citizen’s Guide to Hope in a Time of Fear (citato da Maria Popova Brain Picking) “The kind of hope I often think about (especially in situations that are particularly hopeless, such as prison) I understand above all as a state of mind, not a state of the world […]it is a dimension of the soul; it’s not essentially dependent on some particular observation of the world or estimate of the situation. Hope is not prognostication. It is an orientation of the spirit, an orientation of the heart; it transcends the world that is immediately experienced, and is anchored somewhere beyond its horizons.”
Questo tipo di speranza, di cui scrivono Eschilo, Fromm, Havel e chissà quanti altri e che ognuno di noi almeno una volta ha provato, è “un’apertura fiduciosa a un futuro di verità e libertà, alla realizzazione personale completa; è una sola e non è rivolta a uno specifico e identificabile evento desiderato.” (Tonoli). È, per dirla con Borgna, espoir, lo sperare. A cui si contrappone la espérance, la speranza concentrata su singoli eventi e circoscritta al conseguimento di uno specifico concreto obiettivo.
“Se la paura angosciosa recide la continuità e la identità dell’io e del mondo in cui l’io si riflette – continua ancora Tonoli – la speranza assoluta le ristabilisce e le rende durature. […] per i Greci, saggio è colui che sa coltivare la speranza, sempre, nonostante tutto. Esattamente come saggio è chi, su un piano opposto […] sa riconoscere i limiti della condizione umana e onora il destino, riducendo o rinnegando quel tipo di speranza che genera passività oziosa o cieca fiducia in irrealistiche forzature del destino”
Può sembrare astratto ma se applichiamo questi concetti e queste riflessioni all’attuale discussione sul presente o meglio sul futuro ne vediamo conseguenze molto concrete.
La nostra aspettativa e previsione del futuro dipende dal nostro atteggiamento interiore, emozionale nei confronti del futuro, dell’incerto, del vago. (Non a caso “vago” significa al contempo leggiadro in poesia ed inesatto, oscuro, da chiarire nelle scienze naturali). Possiamo proiettare nel futuro le nostre paure e trovare naturalmente riscontri obiettivi ai nostri timori in inquietanti sviluppi della rete e della tecnologia. Così come possiamo individuare nella rivoluzione digitale in cui ci troviamo immersi uno straordinario strumento d’innovazione e di liberazione per condividere conoscenza e diritti. Ancora più importante è la capacità di distinguere tra speranze singole, concentrate sui singoli eventi e la speranza assoluta. Le speranze singole di rivelano ai tempi di Esiodo come ai nostri, per quello che sono, aspettative illusorie, infantili (anche se, anzi proprio per questo comprensibili) che i nostri desideri si avverino, che il futuro sia radioso e sereno, che Internet sia la nuova manna, il digitale una sorta di vita ultraterrena. Ma è proprio quando muoiono le speranze relative che può nascere la speranza come stato dell’essere.
Come dice Havel:
“The more unpropitious the situation in which we demonstrate hope, the deeper that hope is. Hope is definitely not the same thing as optimism. It is not the conviction that something will turn out well, but the certainty that something makes sense, regardless of how it turns out. In short, I think that the deepest and most important form of hope, the only one that can keep us above water and urge us to good works, and the only true source of the breathtaking dimension of the human spirit and its efforts, is something we get, as it were, from “elsewhere.” It is also this hope, above all, which gives us the strength to live and continually to try new things, even in conditions that seem as hopeless as ours do, here and now”
Immagine: Gustav Klimt, La speranza I, 1903
Suggerimento musicale: Händel, Giulio Cesare, “Cara speme”