Talvolta il dramma di una tragedia sembra non aver mai fine. La tragica storia della giovane veterinaria rapita, violentata, uccisa e bruciata in India un mese fa (27 novembre 2019) sembra superare le più macabre fantasie e coinvolgere in un crescendo di orrore tutte le sfere dell’onlife.
Come descritto con precisione da @valigiablu la 27enne veterinaria, nome di fantasia, per motivi legali, Disha, di ritorno da un viaggio in una vicina città per una visita medica, era andata “a riprendere il motorino, ma si era accorta che aveva le ruote a terra. L’autista di un camion parcheggiato nelle vicinanze e un altro uomo si erano offerti di aiutarla: uno dei due avrebbe portato lo scooter a riparare nelle vicinanze, e poi sarebbe tornato indietro. Disha aveva accettato, ma con il passare del tempo aveva iniziato a preoccuparsi. Dopo 20 minuti aveva chiamato la sorella, spiegandole la situazione, dicendo di avere paura perché quegli uomini erano lì fermi davanti a lei, mentre del motorino non si vedeva l’ombra. La sorella le aveva consigliato di prendere un taxi e tornare a casa. Disha aveva risposto che l’avrebbe richiamata a breve, ma di lei da quel momento non si è avuta più nessuna notizia.
Secondo la polizia, i due uomini erano membri di una banda di quattro persone che aveva organizzato la trappola, sgonfiando appositamente le ruote del motorino della ragazza. I quattro sono stati poi arrestati, e hanno confessato di aver stuprato a turno Disha dopo averla trascinata in un posto chiuso a pochi metri di distanza, di averla strangolata e di aver trasportato il suo corpo senza vita per circa 20 km a bordo del camion. Poi l’hanno gettata sotto a un cavalcavia e le hanno dato fuoco.”
La tragica vicenda della ragazza ha scatenato un’ondata di indignazione e proteste che si sono estese dalla periferia della sua città, Hyderabad nel Sud dell’India ad altre città indiane, tra cui Delhi, Bengalore e Calcutta. Le proteste hanno la loro origine da una parte nel fatto che la polizia non avrebbe preso sul serio l’allarme dei genitori della ragazza ritardando colpevolmente le sue ricerche. Dall’altro l’indignazione scaturisce dai molteplici analoghi casi di stupro accaduti all’incirca nello stesso periodo di tempo in altre località indiane. Stupri di donne spesso seguiti dal loro omicidio sono purtroppo all’ordine del giorno in India. “. Le statistiche parlano di circa 90 casi di violenza sessuale al giorno, in un paese che in un’indagine del 2018 condotta dalla Thomson Reuters Foundation è stato definito il più pericoloso al mondo per le donne” (@valigiablu) Nonostante la sempre maggiore sensibilizzazione sul tema e l’inasprimento delle pene – ad esempio allungamento dei tempi di detenzione e pena di morte nel caso di vittime minori di 12 anni – è opinione comune che il problema stia addirittura peggiorando e che comunque gli attuali rimedi siano largamente insufficienti.
Nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere carbonizzato della povera giovane, le proteste sono continuate in tutto lo spettro dell’onlife. Sia davanti al commissariato di Polizia accusato di colposa inerzia, sia nelle altre città, cittadine e cittadini hanno manifestato e chiesto a gran voce la pena di morte per gli stupratori/omicidi di Disha. Non meno violenti i Tweet in cui si richiedeva l’impiccagione per i responsabili o si augurava loro una morte ancora peggiore.
“su Twitter si era diffuso l’hashtag #HangTheRapists, mentre Jaya Bachchan, politica ed ex attrice di Bollywood, aveva dichiarato in Parlamento che per quanto possa sembrare duro «questo genere di persone dovrebbe essere portato in pubblico e linciato»” (@valigiablu)
A circa una settimana di distanza i quattro stupratori/omicidi sono stati uccisi dalla polizia in circostanze poco chiare. Secondo le informazioni fornite dalla stessa polizia, i responsabili sarebbero stati portati sulla scena del crimine per ricostruire il delitto ed avrebbero tentato di fuggire. Da qui l’uccisione. È quantomeno singolare che invece di ucciderli la polizia non abbia sparato loro alle gambe.
Anziché chieder conto del loro operato ai poliziotti, questi ultimi sono stati accolti dai manifestanti con petali di rose e festeggiati come eroi. Anche in questo caso Internet e i social media sono andati di pari passo con l’ondata di pubblico giubilo nelle piazze e sui SN sono state espresse congratulazioni e lodi ai poliziotti. Politici si sono addirittura pubblicamente congratulati con i poliziotti additando il loro comportamento come esemplare.
Mentre gli uni richiedevano la morte per i responsabili e/o si complimentavano con i poliziotti che l’avevano portata a termine, gli altri (o forse gli stessi?) consultavano siti porno ricercando il nome della povera ragazza al punto che quest’ultimo sarebbe stato per alcuni giorni tra i più cliccati sul sito porno, XVIDEOS.COM, in India. (uso il congiuntivo nella tenue speranza sia una notizia falsa, il ché peraltro non sembra).
Ho faticato a (leggere e a) scrivere di quest’orrore. Ho continuato e continuo a chiedermi come sia possibile, anche se razionalmente so che purtroppo lo è. Sono altrettanto consapevole di non poter far nulla (più) per Disha e purtroppo anche per tante altre donne indiane minacciate dalla stessa sua sorte, se non poveramente scriverne qui. Credo che l’augurio e la minaccia di vendette animalesche sia off- che online, pur se psicologicamente comprensibile, tutto facciano tranne cambiare davvero la situazione legale e culturale per le donne in questione. Cerco di pormi allora altre, forse meno angoscianti, domande per capire come sia possibile, almeno dal punto di vista teorico, porre fine in generale a un’ inarrestabile serie di violenze, quando queste sembrano proseguire inarrestabili offline e online di pari passo.
Una risposta netta l’aveva già offerta Eschilo, che, più di 2500 anni fa con la sua trilogia di tragedie sul tema (Orestea), era giunto alla conclusione che solo la giustizia può mettere fine alla ripetizione della violenza in forma di vendetta. Con il gesto di Atena di trasformare le animalesche Furie in civilizzate Eumenidi la rabbia vendicativa foriera di morte veniva trasformata in civile sentimento di giustizia spostando l’accento dall‘umiliazione del colpevole e dal presunto risarcimento che ciò rappresenterebbe per la vittima alla creazione di un futuro di benessere e prosperità per la comunità. Purtroppo ciò continua a non avvenire, ad oltre 2500 anni di distanza, in troppe parti della terra. La mancata giustizia, si sa, favorisce la vendetta, che già alberga in tutti noi.
Sarebbe ingenuo attendersi che sui social le cose vadano molto meglio che nelle nostre piazze e case. Vanno anzi in questi! casi peggio che nelle tragedie greche. Nelle tragedie di Eschilo il coro rifletteva sulle azioni della tragedia e le commentava con capacità critica. I cori della nostra epoca digitale, i social, sembrano spesso non avere distanza critica dall’azione ma anzi parteciparvi appieno e venire travolti dalle emozioni come la folla manzoniana. In situazioni di forte impatto emotivo, non sempre! dunque, i social possono riprendere le emozioni prevalenti e le polarizzarle ulteriormente in una sorta di potenziamento reciproco tra azione offline e commento online fino a sviluppare una sorta di onda d’urto emotiva. In ciò sta al contempo il grande potenziale e il grande limite dei social, capaci di rinfocolare le emozioni e spingere all’azione collettiva con una forza straordinaria. Lo scopo dell’azione collettiva può essere però assai vario. Che si tratti di abbattere una dittatura, protestare contro una riforma magari impopolare ma utile, mettere alla gogna mediatica colpevoli di un crimine o un poveretto che appare a prima vista il colpevole non fa differenza. L’intensità del contagio emotivo social, dunque il grado della sua viralità, non dipende principalmente dallo scopo dell’azione ma dalla forza delle emozioni in gioco. Più primitive sono le emozioni suscitate (ad esempio rabbia, risentimento, indignazione o, più spesso, un miscuglio di queste) più efficace è la forza del contagio e dunque la sua capacità di rinfocolare l’azione collettiva. L’estensione del contagio emotivo social si basa appunto, come nelle malattie infettive, sull’ininterrotta inconsapevole trasmissione dell’emozione tra gli utenti senza la necessità però di vicinanza fisica. Il pur eticamente criticabile studio PNAS sulle interazioni in Facebook lo ha dimostrato chiaramente (“emotions expressed by others on Facebook influence our own emotions, constituting experimental evidence for massive-scale contagion via social networks”).
Come nel contagio delle malattie infettive la presenza di individui vaccinati interrompe la catena e dunque rallenta e magari ferma il contagio, anche sui social network l’espressione di posizioni critiche in qualità e numero sufficiente può rallentare il contagio emotivo e avviare ad una più approfondita riflessione critica sul tema. Ma è difficile sottrarsi alla forza magnetica del contagio social. È necessario distanziarsi dall’avvenimento e soprattutto dalle emozioni che esso induce negli altri e in noi. È necessario un momento di silenzio, di astinenza per arrivare al distanziamento e con questo alla riflessione critica. La vera empatia, onlife, non è la compassione, l’indignazione dell’istante ma la capacità di immedesimarsi nell’altro, tornare in sé stessi e oscillare consapevolmente e criticamente tra queste due posizioni. Questo processo aiuta a metterci, per quel poco che è possibile!, nei panni altrui, senza perdere la nostra identità e la nostra capacità critica. L’essere toccati emozionalmente dalle vicende altrui è solo la premessa, l’avvio di un processo (in tre fasi secondo il concetto di empatia di Edith Stein) di incontro con la realtà emotiva dell’altro. Deve seguire un confronto emozionalmente serrato e intellettualmente onesto in cui prendo consapevolezza dei miei sentimenti verso l’altro e prendo criticamente posizione nei suoi confronti.
Il paradosso della viralità. Affinché la viralità si realizzi è necessario che chi contribuisce a crearla sia emozionalmente partecipe ma inconsapevole! del proprio ruolo in modo che il contagio si trasmetta il più ampiamente e velocemente possibile, senza l’interruzione di momenti di riflessione. La viralità è a incompatibile con la consapevolezza, come d’altro canto sono inconsapevoli e non riflettuti l’entusiasmo collettivo o la rabbia dei momenti di protesta, di ribellione (ma anche tanti altri stati mentali individuali a cominciare dall’innamoramento). L‘assenza di consapevolezza della viralità non è di per sé una pecca, casomai un limite del quale essere consapevoli. Il contagio della viralità è un’onda d’urto estremamente preziosa e potente ma da maneggiare (ammesso che lo si possa fare) con cura. Può servire a far salire la protesta contro ingiustizie, violenze, crimini quali quelli di cui sono purtroppo oggetto le donne indiane per cambiare finalmente un intollerabile stato di cose. Il contagio emotivo onlife non è però lo stato più adatto per trovare soluzioni meditate, specifici rimedi che hanno invece bisogno di riflessione e critica.
Proprio per questo sono oggi più indispensabili di ieri gli approfondimenti, le riflessioni e le posizioni critiche dei giornalisti e dei siti giornalistici di approfondimento (come @valigiablu ). Per fornire ricerche, controllo delle fonti e approfondimenti che il singolo utente, non professionista, non può procurarsi o che si potrebbe procurare con dispendio di tempo e fatica incommensurabili. E anche per offrire opinioni originali e non scontate. In rete c’è per fortuna anche molto altro. Ci sono Chat in cui si può animatamente ma educatamente discutere di un tema, scambiare opinioni e conoscenze e uscirne arricchiti, tanto che mi ostino ad immaginare che le piattaforme del futuro potrebbero forse essere così, moderate da un cultural social media Mediator, come fa già oggi @MHChat #MHChat per la salute mentale. In rete ci sono poi incontri con persone, sì persone (nel senso anche junghiano di maschere naturalmente), che ci aprono a mondi nuovi e diversi, ricchi, variopinti, magari anche strani ed inquietanti ma straordinariamente affascinanti. (Per quanto non sia di nessuna rilevanza statistica, ne ho conosciute molte straordinarie su Twitter, a partire da @asinomorto ! cui va il mio saluto). Quando ci si incontra onlife, il contagio può svanire e può cominciare un dialogo. Perché, come non si stanca mai di scrivere Borgna, citando Hölderlin, “noi siamo un dialogo”. Forse anche così si può interrompere il contagio della violenza, evitare che si traduca in altra violenza, educare i nostri sentimenti, aiutare a pensare e riflettere per trovare soluzioni meditate e mature alla violenza.