„Se in certi momenti, comprensibilmente, vi sentite sopraffatti dall’ansia o dalla disperazione, la soluzione non è sfogarsi pubblicamente sui social: è chiamare un amico, o cercare aiuto da chi ve lo può dare.“
scriveva un paio di giorni fa Fabio Chiusi su Twitter. Un bel po‘ prima di lui, Hölderlin, che di social non si intendeva ma di riflessione e libri sì e molto, annotava in una sua lettera del 1799:„ La riflessione personale, un libro o qualsiasi altra cosa tu possa usare come guida, può essere buona, ma la parola di un vero amico che conosce la persona e la situazione è più benefica e sbaglia meno .”
Ma se l‘amico ha anche lui problemi, magari proprio gli stessi nostri, e noi non possiamo uscire di casa se non a poche centinaia di metri, rischiando per di più l‘ira o la denuncia dei vicini, si può facilmente comprendere che i social diventino gli spazi in cui si riversano la nostra ansia, frustrazione, rabbia, tristezza, disperazione. Sarebbe anzi strano se non fosse così visto che, come dice sempre Hölderlin „siamo un colloquio“.
I social, l‘abbiamo ripetuto fino allo sfinimento, sono diventati le nostre aie, piazze, spesso i nostri (tristi) focolari, i mercati, i centri commerciali oltre che i nostri più o meno provinciali circoli, saloni letterari, accademie, crocevie di informazioni e conoscenze. Così come abbiamo inizialmente condiviso sui social polemiche e battute relative alla gravità del contagio, abbiamo poi postato le foto rincuoranti dei balconi festanti e infine negli ultimi giorni il fastidio crescente per la quarantena, la rabbia contro i Runner, nuovi untori.
Come riassume efficacemente Annalisa Camilli in un suo tweet
„Gli italiani hanno passato la prima settimana di quarantena a cantare dai balconi, a dirsi “andrà tutto bene, stiamo uniti”. La seconda invece a chiamare la polizia, a segnalare i vicini o quelli che corrono o vanno in bicicletta. La nostra nuova vita da schizofrenici. „ #COVID19
Siamo davvero schizofrenici? Cosa ci aspetta ora?
Accanto ai segni del fastidio per la quarantena, che diventano spesso rabbia e intolleranza, livore, aggressività, i social si vanno popolando di immagini e testimonianze sempre più drammatiche. I racconti angosciati dei sopravvissuti all’infezione e i dilemmi etici dei sanitari, gli inviti dagli ospedali a stare a casa, le foto dei sanitari morti e dei convogli di bare, il macabro rito dell’annuncio serale della protezione, ormai un bollettino di guerra. I nomi dei defunti hanno cominciato a divenirci tristemente noti: conoscenti, parenti, familiari sempre più stretti. Il dolore, scacciato dalla vitalità dei canti e degli aperitivi sui balconi, celato dalla rabbia verso i presunti colpevoli della persistenza del contagio, non può più essere negato. I morti, sottratti alla nostra vista dal contagio, ritornano prepotentemente nella nostra immaginazione collettiva e individuale. I necrologi riempiono tragicamente quotidiani locali e nazionali. È il lutto che dopo la fase della negazione e della rabbia si fa strada. Il dolore per la perdita dei nostri cari ma anche per la scomparsa delle nostre abitudini, dei nostri ruoli lavorativi, di una rassicurante struttura sociale. Ora che tutto è fermo viviamo in un surreale vuoto di attività e di contatti sempre più riempito dal dolore. È una tristezza (cit. tizianacampodon) lancinante cui non possiamo sottrarci. Né dovremmo. Non si tratta di essere masochisti ma di guardare in faccia la sofferenza che, in forme e intensità diverse, tutti ci colpisce e ci accomuna. Non possiamo non piangere i nostri morti. Non possiamo rimanere insensibili di fronte alla chiusura di tutte le attività produttive non essenziali e al grave disorientamento che quest‘arresto, mai visto prima nella storia repubblicana, comporta. La forza non consiste nel non versare lacrime di fronte ad una catastrofe nazionale e mondiale. Le lacrime esprimono il dolore del congedo, la sofferenza di dover dire addio alle persone su cui avevamo riposto i nostri affetti, ai ruoli professionali e sociali che ci hanno dato fin qui sicurezza e soddisfazione.
„Fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza, non vuol dire semplicemente subire: è un’azione attiva, un trionfo positivo“ scrive T. Mann (cit. @ergoelle4). L’accettazione della perdita non significa rassegnazione ma accettazione consapevole della realtà nella speranza di una rinascita.
Di questo doloroso e consapevole lutto abbiamo bisogno oggi per poter ripartire domani. Nel suo brevissimo saggio „Caducità“ del 1917 Freud constata
„Un anno dopo la guerra scoppiò e depredò il mondo delle sue bellezze. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d’arte che incontrò sul suo cammino; infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà, il nostro rispetto per moltissimi pensatori ed artisti, le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze. Insozzò la sublime imparzialità della nostra scienza, mise brutalmente a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre grazie all’educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli. Rifece piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della terra. Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere molte altre cose che consideravamo durevoli.“
Anche se viviamo, per fortuna, in tempo di pace, la guerra che stiamo combattendo contro questo virus e „gli spiriti malvagi“ che esso suscita in noi, è davvero immane ed ha conseguenze simili a quelle descritte allora da Freud. Vogliamo però sperare che si realizzi presto anche quanto Freud scrive a conclusione del suo breve saggio
“Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.“
Suggerimento musicale: Pergolesi, Stabat Mater