Metafore e virus

Un paziente mi ha riferito di aver accolto in casa un barbone cui ha generosamente offerto la propria camera da letto salvo poi vedere in lui, in quel barbone maleodorante, la morte che lo stava minacciando, in senso metaforico, il Coronavirus. Così dicendo il paziente si distanziava, consapevolmente o meno, dalla minaccia di morte, trasportandola appunto su un piano figurato e conferendogli al tempo stesso senso. Il barbone maleodorante non è più uno dei tanti individui ai margini della società ma diventa, agli occhi del paziente, l’essenza stessa del male (attuale) che lui è chiamato a fronteggiare. Con quella metafora il paziente dà senso a ciò che gli è successo e (grandiosamente) a sé stesso.
Non è in fin dei conti quello che facciamo tutti noi, ogni giorno e in particolare proprio quando il senso delle cose sembra sfuggirci? Attraverso quello che Floridi chiama il capitale semantico, ricerchiano e diamo senso a fenomeni per lo più (ma non solo) dolorosi che di senso ci paiono privi, partendo dalla convinzione che, come dice Frankl, “anche nella sofferenza vi è una possibilità di senso”. Naturalmente la ricerca di senso può essere più o meno felice, la metafora più o meno calzante. L’interpretazione della sofferenza come punizione divina accompagna l’uomo dalla sua nascita e ad essa attingono a piene mani ancora oggi religiosi per fortuna isolati, dall’indubitabile sadismo. Quando Padre Livio sostiene che il Coronavirus è la punizione divina per le colpe dell’umanità si muove, con scarsa originalità, su un sentiero assai battuto che Giobbe sarebbe il primo a sconfessare (splendido il suo dialogo con Dio). Vi sono poi versioni più aggiornate, evoluzionistiche, anche poetiche. “Nove marzo 2020” la poesia di Mariangela Gualtieri che ha fatto il giro del web (italiano) in questi giorni, comincia proprio così
Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
Belle parole per carità, ma 132mila casi di COVID 19 in 123 Paesi e più di 5.000 morti per uno slow down? Mah…
Non possono mancare naturalmente le versioni filosofiche.
Nel concetto di “democrazia immunitaria” – scrive Donatella Di Cesare  „è presente in maniera profonda lo “spettro del contagio”: l’altro” visto come portatore di morbo e si insinua la volontà di non essere toccati, e quindi contagiati“ per cui “emerge il paradigma del cittadino nevrotico, ossessionato dalle minacce, dalle regole igienico-sanitarie, dalla propria protezione e pronto dunque ad accettare misure straordinarie che non sarebbero accettabili all’interno di una democrazia.” (?)
Rocco Ronchi nel suo profondissimo Le virtù del virus, segnalatomi da (@GiovanniFanfoni) introduce proprio così “Difficile non farsi prendere dal demone dell’analogia quando ci si misura con l’enormità dell’evento pandemia.” e soggiunge “Nelle riflessioni che accompagnano il suo diffondersi a macchia d’olio, il Covid 19 è diventato una sorta di metafora generalizzata, quasi il precipitato simbolico della condizione umana nella post-modernità”. Qui è lo stesso processo di metaforizzazione ad essere brillantemente analizzato.
Come si vede, i livelli di complessità aumentano, potenzialmente all’infinito. In fin dei conti la cultura altro non è che un interminabile processo di simbolizzazione in cui la realtà viene elaborata attraverso le lenti dell’arte e/o della scienza. Ma l’evoluzione culturale, la Zivilisation si contrappone all’evoluzione naturale, pur non potendo ignorarla. Non credo che i virus abbiano un messaggio da trasmetterci, caso mai glielo attribuiamo noi, né possiamo lasciarci intimorire da essi. Dobbiamo tutt’al più sfruttare i progressi tecnologici della civilizzazione per combatterli il più efficacemente possibile, anche con il Contact Tracking come suggeriscono Carnevale-Maffè e Fuggetta.  Anche perché, come scrive De Biase „la ricerca di una misura migliore di quella di bloccare tutto un paese di 60 milioni di persone, almeno in teoria, resta ragionevole, visto che poi le conseguenze economiche riguarderanno invece tutti e che saranno i più deboli a pagarla più cara.“
A furia di metafore mi sono allontanato però dal tema iniziale. D’altro canto questa è appunto una delle funzioni della metafora. Allontanarci dall’oggetto che abbiamo sotto i nostri occhi e trasportarci su un altro piano, più elevato e disincarnato. Funziona quanto mai gradita quando l’oggetto è la sofferenza di tutti noi. Anziché fare come il giornalaio che ha esposto il cartello “non parlo di Coronavirus”, più elegantemente, con la metafora eludiamo, ci illudiamo di eludere, la sofferenza e la paura della stessa e approdiamo ad un cielo simbolico nel quale esse sono state, per un momento, trasfigurate.
Vale, credo, per la metafora ciò che vale anche per l’interpretazione nelle sedute analitiche. Dev’essere azzeccata e comunicata al momento giusto. Ora ci troviamo ancora sotto shock, in balia di un flagello clinicamente più grave e soprattutto umanamente e socialmente più devastante di quanto avremmo potuto immaginare. Non è soltanto una questione, e non è poco, di letalità, che sulla base delle cifre complessive degli infettati si rivelerà probabilmente in linea con quanto previsto. Ancora più drammatico è per certi versi lo sconvolgimento della vita relazionale e sociale: malati che per essere assistiti scompaiono alla nostra vista e alle nostre premure, vengono curati in strutture sanitarie al collasso, a costo di un permanente stress dei sanitari. Malati che muoiono soli/e senza il conforto di una nostra parola, un nostro sguardo. Dilemmi etici in teoria da tempo noti ma che divengono crisi di coscienza di fronte allo sguardo della sofferenza. Incertezze, titubanze, errori, contraddizioni della politica cui ci rassegniamo in tempi di ordinaria amministrazione ma che non possiamo accettare di fronte alla sofferenza dei nostri cari. Ecco, in questi momenti la via di fuga della metafora è molto allettante ma forse anche altrettanto illusoria. Più che di carne che si fa parola, abbiamo bisogno, come si diceva, di parola che si fa carne, di vicinanza, di una comunità con cui condividere certo parole ma anche gesti, emozioni, esperienze per superare lo shock. I flashmob di questi giorni affacciati/e alle finestre e sui balconi mi sembra esprimano bene proprio questo profondo bisogno di sopravvivere e di vivere. Al tempo stesso il tipo di metafora scelta influenza il modo di pensare al nostro futuro. Se la metafora riesce ad interpretare lo spirito della comunità, questa si sente rinsaldata, invitata a riprendere il cammino in una direzione condivisa. Si condividono più facilmente i sacrifici se li si ritiene necessari per un giusto scopo, si supera più facilmente la crisi, se le si attribuisce un senso partecipato, che non sta nel virus, ma dentro di noi. Al di là della sopravvivenza, qual senso vogliamo attribuire alla speriamo precocemente ritrovata salute?
consiglio musicale: i flashmob d’Italia