“Le ideologie ci separano, i sogni e le angosce ci riuniscono.” Scrive Eugene Ionesco citato da @tizianacampodon. Le speranze dei sogni collettivi certo ci uniscono ma le angosce? Ognuno è in realtà angosciato a suo modo come le famiglie infelici di Tolstoi. C’è chi si dispera e chi nasconde l’angoscia dietro un controllo maniacale dei particolari, chi butta addosso la propria ansia al primo che gli passa a tiro offline e online e chi la sospinge sempre più in profondità dentro di sé, sperando che, incapsulata come la scheggia di legno, non dia più segni di sé.
Ora che stiamo esaurendo i consigli utili per fare la pizza con il bicarbonato al posto del lievito, per praticare lo yoga rannicchiati su un treppiede, per esercitare la mindfullness in coda fuori dal supermercato cominciamo a sperimentare un‘inquietudine interiore che difficilmente riusciamo a trasformare in legame sociale
Iniziamo piuttosto ad avvertire, sotto i tentativi sempre più nevrotici di fare e di riempire il tempo con qualsiasi attività possibile, un vuoto angosciante.
Alcuni Tweet lo rivelano chiaramente
Non è che magari non sappiamo come affrontare la noia?
O non sappiamo fermarci?
O magari non sappiamo cosa sia non affidarsi al continuo movimento della vita per sentirci esistenti?…
Sarebbe certo auspicabile riuscire ad accettare questa condizione per accedere alla nostra interiorità, come scrive @byers90
It would be good for all of us if we committed to not filling all of this time. We are so deeply fearful of empty time, of boredom, of nothingness, but it’s rare and valuable and now we can access it if we want to.
D’altro canto non siamo tutti S. Agostino. Il suo nobile invito all’ interiorità “noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” ci trova oggi a dir poco impreparati. Se Pascal scriveva già al suo tempo “che tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene da solo nella sua stanza” cosa avrebbe detto al giorno d’oggi in cui possiamo elegantemente fuggire da quella stanza grazie al digitale?
Guardarsi dentro non è facile nemmeno in tempi normali con un terapeuta a nostra disposizione, figuriamoci nel bel mezzo di un film apocalittico che è diventato improvvisamente realtà. I ben intenzionati consigli per affrontare e vincere l’ansia rischiano di avere lo stesso effetto della frase “non fatevi prendere dal panico”. Più la si ripete più si teme che la situazione sia fuori controllo.
Scrutare le proprie paure, accettare la propria impotenza, trovare in sé stessi il silenzio, ricostruire un equilibrio interiore è (difficile) scelta personale che non può essere indotta da nessun altro se non da noi stessi.
È Kierkegaard che genialmente intuisce la natura ambivalente dell’angoscia che è al tempo stesso il fondo dell’abisso in cui temiamo di cadere ma anche la vertigine della nostra libertà di scelta.
“L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso; perché deve guardarvi. L’angoscia è, appunto, la vertigine della libertà.”
Non è certo un caso che due grandi figure, sentendo l’angoscia che ci dilacera, abbiano preso l’iniziativa di parlarci pronunciando parole paterne di rassicurazione. Da un lato il nostro presidente della Repubblica, in qualità di padre istituzionale e morale, ci ha fatto sentire la sua calda e spettinata umanità, richiamando al contempo alla solidarietà i nostri partner europei. Dall’altra Papa Francesco, quale padre spirituale di credenti e non, si è unito a noi nella solitudine della tempesta ricordandoci che nessuno si salva da solo.
Abbiamo però bisogno anche di un padre/una madre dinamico pragmatico e razionale che ci illustri cosa sta succedendo sul fronte tragico della pandemia, che ci aiuti a capire i numeri da cui veniamo ogni giorno travolti, che ci spieghi quale strategia è stata adottata per combattere il contagio e contenere il più possibile malati e morti, quali le alternative se il piano A non funzionasse, come purtroppo appare essere già successo. È generalmente questo il compito che si assume il ministro della sanità o la persona da lui chiamata a dirigere insieme con un gruppo d’esperti, l’emergenza dal punto di vista sanitario. Spesso la figura di un medico (uomo/donna) riesce a coniugare in questi casi autorevolezza scientifica, impegno sul campo e capacità empatica. Non abbiamo più bisogno di bollettini di guerra tristemente ripetuti con sadica ritualità ma di spiegazioni chiare e ragionevoli che ci facciano comprendere il risultato dei nostri sacrifici, cosa si sta facendo, cosa c’è ancora da fare, quando è giusto riaprire, in che modo, quali le possibili alternative. Non è più tempo di paternalistici appelli al senso di sacrificio o addirittura all’eroismo, né di minacce di punizioni o delazioni, è arrivato il momento di spiegazioni che ci convincano, ci motivino a superare l’angoscia, a prepararci in tempi condivisi alla difficile fase della ricostruzione.