La vulnerabilità di chi?

– Che vita vorreste voi dunque?
– Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti
– Una vita a caso e non sapere altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
– Appunto

È il celebre dialogo leopardiano del venditore di almanacchi, illuso che l’anno a venire sarà migliore del precedente ma costretto dall’interlocutore a riconoscere che è proprio l’imprevedibilità del futuro (non sapere altro avanti) che gli consente quell’illusione mentre guardando al passato arriverebbe a conclusioni molto più pessimistiche ma assai più veritiere.
Che vita e che società avremo dopo aver sconfitto, sempre che ci riusciamo, il Covid 19? Avremo imparato la lezione? Saremo meno ingordi, meno stressati, più rispettosi dell’ambiente, più attenti ai piccoli miracoli del quotidiano, più buoni e più giusti? È lecito dubitarne ma in ogni caso il futuro dipenderà da come ci comportiamo ora perché, come ricorda De Biase
“Se si vuole una società di amore non si può conquistarla odiando. Le conseguenze emergono dalle azioni. Il fine è in ogni gesto compiuto per perseguirlo.”
Decisivo sarà dunque a chi rivolgeremo ora le nostre cure e la nostre attenzione. A tutti? Ai più fortunati? Ai più vulnerabili?
E chi sono i più vulnerabili? L’ultimo eccellente editoriale di Lancet ci ammonisce che oltre ai tradizionali gruppi a rischio (anziani, pazienti con altre malattie preesistenti, persone senza fissa dimora) anche molte altre persone faranno fatica a gestire l’attuale crisi da un punto di vista finanziario, mentale, fisico.
Se per noi occidentali le misure sanitarie precauzionali di lavarsi le mani e del distanziamento sociale sono tutt’al più fastidiose, per milioni di persone che vivono in comunità altamente popolate in precarie condizioni igienico-sanitarie e di residenza tali misure sono praticamente impossibili. Spesso si tratta poi di individui che hanno condizioni di malnutrizione, malattie infettive (HIV/AIDS, tubercolosi etc). In altri paesi poveri la battaglia contro il Covid 19 sottrarrà risorse alla lotta contro altre malattie com’è già avvenuto per Ebola.
La chiusura delle scuole ha inoltre effetti diversi a seconda della situazione socio-economica. Se nei paesi occidentali viene sostituita dall’online teaching e in paesi tecnologicamente più arretrati come il nostro, può magari incoraggiarlo, nell’America Latina e caraibica, rappresenta, oltre che una mancanza di formazione, anche un problema alimentare. Con la chiusura delle scuole si interrompe infatti il programma di mensa scolastica che rappresenta la più sicura fonte giornaliera di cibo per oltre 10 milioni di bambini. Gli stessi provvedimenti di chiusura scolastica adottati ai tempi della lotta all’Ebola avevano comportato un aumento del rischio di gravidanza in ragazze giovani, abbandono scolastico, abusi sui bambini.
Il lockdown in stati con precarie condizioni socioeconomiche e con grandi percentuali di lavoro informale, come in India, può esacerbare le disparità sanitarie a danno delle comunità marginali.
Negli stessi ricchi Stati Uniti l’assenza di un sistema sanitario universale rischia di creare gravi conseguenze economiche e/o scarsi risultati sanitari per le persone sprovviste di assicurazione sanitaria.
Ma anche il nostro atteggiamento psicologico nei confronti della crisi condiziona e determina il futuro. Se la narrativa viene impostata sulla linea della tragedia, scrive De Biase nel post citato “non c’è via d’uscita. C’è soltanto la catarsi.” Aspettare a capo chino che la tragedia, il contagio, il picco, l’anno vecchio passi e confidare che quello nuovo sia migliore è una comprensibile reazione di difesa, una sorta di paralisi di fronte alla shock, simile al riflesso di irrigidimento di alcuni animali davanti al pericolo. Non è però alla lunga una strategia particolarmente sagace. Anche perché nel frattempo altri, molti altri, non stanno fermi ma si muovono orientando il futuro a loro piacimento. Imparare da quelli che hanno già fatto meglio di noi (Corea del Sud, Taiwan) mi sembra solo un segno d’intelligenza, tardivo ma quanto mai urgente. L’efficacia di un metodo non dipende dall’autorità di chi lo introduce ma dalla bontà dei suoi verificabili e ripetibili risultati, insegnava qualcuno tempo fa. Naturalmente la tecnica impegnata in quei paesi va applicata nel pieno rispetto dei nostri diritti. Non si tratta dunque di scegliere uno dei due poli di un insolubile dilemma, salute da un lato, diritti dall’altro. “Chiediamoci piuttosto – scrive Stefano Epifani – come sfruttare le tecnologie di tracciamento per arginare l’emergenza sanitaria senza ledere i diritti fondamentali. “
E accanto al tracciamento si stanno delineando altri metodi (clinici e epidemiologici ) altrettanto importanti che consentono di costruire una strategia complessiva. Loquenzi riassume così:
“Il lockdown non è sbagliato in se ma non basta da solo. Ci vuole coinvolgimento e non minacce, buon senso e non punizioni, prospettive chiare e non confusione sul dopo, test a campione, test sierologici, certezza sui dati, riflessione comune su ripartenza, assistenza domiciliare, ci vuole tracciamento dei contagi, reimmissione dei guariti nella vita normale, responsabilità politica non scaricabarile su cittadini e tecnici, valutazione dei rischi e dei trade off. Il solo lockdown non funziona o se funziona da solo lo devi imporre per un tempo troppo lungo


Troppo quanto? Alcuni segnali non vanno sottovalutati. La percentuale di violenze domestiche sarebbe aumentata in Cina nella fase del lockdown. In Italia è stato segnalato un aumento dei trattamenti sanitari obbligatori in Piemonte. Un articolo dell’Economist sul tema dei possibili danni psichici da lockdown rileva:
According to a rapid review of the psychological effects of quarantines, published on March 14th in the Lancet, a British medical journal, some studies suggest that the impact of quarantines can be so severe as to result in a diagnosis of post-traumatic stress disorder (ptsd).
Lo stesso articolo cita inoltre studi che si riferiscono al lockdown del 2009 durante la SARS. Ebbene
It found that the mean post-traumatic-stress scores were four times higher in children who had been isolated. Among the parents who had been quarantined, 28% reported symptoms serious enough to warrant a diagnosis of a trauma-related mental-health disorder. For those who had not been in isolation, the figure was 6%.
The longer a quarantine goes on, the greater the effect on people’s mental health. Another study, which also looked at the impact of sars, found that those who were quarantined for more than ten days were significantly more likely to display symptoms of ptsd than those confined for fewer than ten days.
Anche in questo caso non tutti sono vulnerabili allo stesso modo. Ma se vogliamo costruire un futuro migliore, dobbiamo tener conto della vulnerabilità di tutti.
Nelle condizioni di isolamento e in definitiva in tutte le condizioni di stress, decisiva per il superamento dello stress stesso è la partecipazione attiva al processo per giungere a una soluzione. Se anziché sentirci prigionieri di un sistema a noi incomprensibile, ci consideriamo protagonisti del superamento della crisi, resistiamo meglio allo stress e diveniamo creativi. Anziché beccarci come i polli di Renzo e agire la nostra rabbia con il Runner di turno, con quello che non porta la mascherina da solo, che fa prendere una boccata d’aria al/la figlio/a, che va a far la spesa da 10 Euro, possiamo usare la rabbia per nuove idee. Possiamo metterci nei panni delle persone vulnerabili, aiutarle, proporre piccole soluzioni per il quotidiano, assumerci la responsabilità di pensare e fare qualcosa di utile. Il futuro è, può essere nostro, il finale doloroso ma non necessariamente catastrofico.
In un suo brevissimo (accessibilissimo) e folgorante saggio composto al termine della prima guerra mondiale, Caducità, Freud riflette sull’enigmatico processo individuale e collettivo del lutto e, di fronte alle rovine della guerra, per una volta con inconsueta speranza, conclude

Una volta superato il lutto si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.

Immagine tratta da Tweet di @IrenaBuzarevicz