Confesso di avere un’antica ruggine con il sostantivo „congiunto“. Fin da quando, bambino, raccontai un’innocente barzelletta usando il termine in modo inappropriato e una mia zia, maestra, me ne chiese arcignamente conto guastando quel poco di ironia che mi sforzavo di suscitare e facendomi arrossire come un peperone. Dalla paradossale situazione giuridico-cabarettistica di questi giorni devo dedurre che anche gli altri 60 milioni di concittadini hanno analoghe difficoltà linguistico-semantiche e che il governo le ha risolte solo ieri. Al di là della facile ironia, la cosa è, come spesso in Italia succede, tragica essendo specchio di un assurdo rapporto di potere tra cittadini e istituzioni ben descritto dal Tweet di @stefanoepifani
Anni di battaglie civili, e poi arriva uno Stato che si arroga il diritto – senza alcuna reale motivazione collegata alla sicurezza – di dirci chi possiamo vedere e chi no, entrando nel merito del valore delle relazioni. Che – per questo si – si dovrebbe subito scendere in piazza
— Stefano Epifani (@stefanoepifani) May 2, 2020
Se poi confrontiamo la querelle italiana sul congiunto con la chiarezza esplicativa e la serietà scientifica del discorso della Merkel abbiamo non solo lo spaccato della distanza che in termini di educazione civica e scientifica ci separa dalla Germania e da tanti altri paesi ma anche una veritiera fotografia delle aspettative reciproche di Stato e cittadini in Italia in tempi di Coronavirus
Non è solo lo Stato italiano, in forza della sua tradizione monarchica, patriarcale, vetero -cattolica etc., a considerarci sudditi ai quali va prescritto chi visitare e chi no. Siamo noi, nella situazione attuale, ad aver paura. In altri momenti siamo scesi in piazza per molto meno. Ora ci facciamo la solita battuta, mugugniamo in casa e sui social e „tiremm innanz“ buoni, buoni. Come se non bastasse „intellettuali e personaggi di spicco della cultura firmano un appello per fermare gli attacchi strumentali al governo Conte in una fase molto delicata per il paese” (riprendo testualmente dal quotidiano comunista Il Manifesto). Non sia mai che una critica di troppo lo sgualcisca. Si respira un clima di “comprensibile” paura dettata certo dal Coronavirus e dalla scia di morti che ha seminato ma ancora di più, forse, dalle cupissime prospettive finanziare e sociali cui Dario Di Vico dedicava il 30.4 un eccellente editoriale in cui si chiedeva tra l’altro se „la caduta del Pil che già in questo primo trimestre ha segnato -4,7% fornirà benzina per una rivolta sociale?”
Leggo la paura nell‘estemporaneità delle proteste contro la (pessima) gestione nazionale e soprattutto lombarda della pandemia. Dopo il fuoco di paglia delle richieste di dimissione della giunta lombarda, tutto procede come prima sia a livello regionale che nazionale. Si continua a non far i tamponi che sarebbero necessari, a non mettere a disposizione della comunità dati certi e validi, a non trovare mascherine e guanti obbligatori, a non sapere quali sono i parametri adottati per riaprire e quali siano quelli per eventualmente richiudere, a non avere una visione complessiva del piano di riapertura. Si preferisce litigare sulle tre T (Trace, Test, Treat), porre domande giuridiche al posto di quelle sanitarie, discutere come e quante volte disinfettare la spesa dopo l’acquisto e aspettare dal governo di sapere chi sono i nostri congiunti. Come al solito, quando tutto fuori dalla porta fa paura, ci si fissa sul particolare, si spacca il capello in quattro, ci si aggrappa al dettaglio come se dal numero di passate con il disinfettante sulla spesa o da comma x, paragrafo y dipendesse il nostro futuro. Nonostante sappiamo per certo, con numeri alla mano, che altre politiche sanitarie di gestione della crisi (non solo Corea del Sud, Taiwan, Singapore, ma anche Nuova Zelanda, Islanda, Austria, Germania e molte altre) sono state molto più efficaci sia in termini di riduzione del contagio che dei morti, ci ostiniamo a credere che l‘unica cosa che possiamo fare sia chiudere e aprire cautamente la porta e che gli altri paesi sono stati solo più fortunati di noi e nascondono i veri dati. Non solo il governo ci tratta da bambini ma noi stessi siamo tornati a sentirci bambini indifesi che per uscire di casa hanno bisogno di chiedere l’autorizzazione e la protezione dei genitori. Come spesso accade nelle situazioni di paura a maggior ragione in un sistema complesso si è creato un clima di regressione, di ritorno cioè a una fase del nostro sviluppo in cui dovevamo la nostra sicurezza ai nostri genitori e in cambio offrivamo la nostra ubbidienza. È il patteggiamento nella sua forma più immatura. Se io faccio tutto quello che mi dici di fare e magari ci aggiungo, per ulteriore sicurezza il rito della disinfezione della spesa, il rito della pulizia dei vestiti, delle scarpe (pure delle zampe dei poveri cani), avrò non proprio la vita eterna ma quanto meno la quasi certezza di non venir contagiato e ferito dal virus. È il principio delle indulgenze contro le quali si era scagliato, non a caso, Lutero – e indubbiamente se ora la Merkel può parlare come parla è anche perché c‘ è stato un Lutero in Germania. Una mia paziente con un grave disturbo ossessivo mi ha detto ridendo che lei questi riti di pulizia e di purificazione li conosce e li esegue con maestria impareggiabile al punto da potersi offrire, dietro adeguato compenso, come esperta. Purtroppo sotto la superficie di questi riti ossessivi vi è un‘angoscia insopportabile. Sia nella mia sfortunata paziente che in tutti noi. Ecco perché regressivamente patteggiamo. Non è una vergogna né una colpa. ‘Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare“ diceva uno che di paura s‘intendeva. L’importante è però esserne consapevoli, per superare anche questo stadio e prendere su di noi il rischio di scegliere liberamente il congiunto che vogliamo.
immagine tratta da @IrenaBuzarewicz