Calcio come metafora di vita o come pascaliano gioco per sopportarla? Sono stati scritti fiumi di inchiostro sul calcio, tra cui, apprendo, una „psicoanalisi del calcio“ (di Ugo Amati) in cui, ovviamente, le metafore falliche abbondano “A volte par di sentire il fruscio della rete quando si gonfia e accoglie nelle sue maglie il ‘fallo alato“ … “Come non vedere nel gesto di falciare l’avversario la minaccia di evirazione nel complesso di Edipo?” Naturalmente ognuno vede nel calcio quel che vuole e soprattutto quel che vive. Il calcio è così intrecciato con la crescita e lo sviluppo di noi italiani, soprattutto, ma non solo maschi, che metafora, realtà, ricordo si sovrappongono e si confondono in un miscuglio inseparabile. Al calcio sono legate le mie prime delusioni e i miei primi, molto timidi, successi nei rapporti sociali. Far parte o meno dell‘improvvisata squadra che si contrapponeva all‘altra altrettanto raffazzonata compagine avversaria significava meritare o meno la fiducia di chi, forte delle sue prestazioni o almeno del suo prestigio, ne decideva la composizione, essere scelto o rifiutato. E doveva essere una fiducia molto generosa perché certo le mie prestazioni di terzino lo sconsigliavano decisamente. Per alcuni miei compagni il calcio costituiva l’unica possibilità di riscatto rispetto a difficoltà scolastiche che erano spesso esito di ambienti familiari poveri o comunque privi di quei sostegni su cui io potevo invece contare. Per me il calcio era al contrario il confronto con la vita che stava fuori dall‘aula e dall‘ovattato ambito familiare. Nel calcio non contava sapere, ma fare o meglio saper fare, avere l’esperienza nelle gambe ma anche nello sguardo rivolto contemporaneamente alla palla, all’avversario e alla propria squadra. Un po‘ troppo per me che mi limitavo, quando mi andava bene, a togliere la palla all’avversario o improvvisavo generose incursioni nell’area avversaria, gettando il cuore oltre l’ostacolo e la palla ben oltre la rete. Il calcio sono state le mie prime vittorie e (molte) sconfitte di squadra, la preoccupazione che i miei sbagli fossero stati decisivi per la sconfitta, ma anche la difficoltà di accettare di aver perso, cosa che non mi riusciva e continua a non riuscirmi facile. Il calcio è diventato poi e continua ad essere anche tifo per una squadra più che bipolare, sostanzialmente depressa, come l’Inter e naturalmente per la Nazionale, a maggior ragione da quando vivo in Svizzera e comprendo meglio quali e quante, assurde e al tempo stesso comprensibili, proiezioni si possano riversare su una squadra e su un incontro. Ogni partita è certo un rito ma si ripete sempre nuova come un pezzo teatrale, capace di suscitare emozioni come se fosse sempre la prima rappresentazione. Per me è stato così anche per la quanto mai sofferta Italia-Austria (masochisticamente seguita per di più con telecronaca “neutrale” svizzera, mai più!). Pur consapevole che niente è più futile del calcio, che ben altri sono i problemi e le sofferenze umane, anzi forse proprio per questo, mi sono lasciato coinvolgere come un bambino, dimentico di tutto il resto. Ho sofferto per tutto il tempo della VAR del goal austriaco poi annullato ed ho esultato come un sedicenne al goal di Chiesa, quasi fosse una liberazione. Il mio pauroso e non più giovane cane si è svegliato di soprassalto, mi ha guardato prima spaventato poi più comprensivo. Deve aver capito che era la mia solita catarsi calcistica. Lui ha smesso da tempo di giocare con la palla, si è girato ed ha ripreso a dormire.
Immagine tratta da Mordillo