“I medici di Bruxelles potranno prescrivere visite ai musei nell‘ambito di un progetto pilota indirizzato a ricostruire la salute mentale a fronte della pandemia” . Lo scrive il Guardian in un articolo gentilmente segnalatomi da @Hans Caron .
I risultati del progetto saranno pubblicati l’anno prossimo e se l’iniziativa, che prende spunto da un’analoga avviata in Canada (nella quale i medici possono prescrivere ai pazienti fino a 50 visite all’anno ai musei) avrà successo, sarà portata avanti per alleviare burnout e altre forme di stress.
Il fondamento di tali iniziative risale a molti studi compiuti nei decenni scorsi che hanno dimostrato l’effetto salutare dell’arte sulla salute mentale. Numerosi studiosi di svariate discipline hanno dedicato al tema grande attenzione. Uno dei più appassionati sosteniti dell’arte come terapia è certamente il filosofo svizzero-britannico Alain de Botton autore tra l’altro nel 2014 di una mostra al Rijks Museo di Amsterdam intitolata appunto Art is therapy. Scrivevo allora :
La tesi di Alain De Botton è relativamente semplice e, come egli stesso riconosce, non proprio originale, essendo assai simile allo stesso spirito che che aveva animato allora la costruzione del museo [Rijks], secondo cui “art would bring us meaning, consolation, direction and comfort, just as the pages of the Bible once had”. L’arte ci dice oggi Alain De Botton “può curare le nostre anime e mostrarci come vivere”.
“Art matters because it offers us assistence in the project of getting on well with our lives, coping with our sorrows, remembering what matters to us, avoiding what hurts us, guiding us to our better natures, rebalancing the excesses of our characters and expanding our sympathies”.
Il percorso artistico si propone addirittura “di rendere la vita leggermente meno dolorosa”. Il protagonista della visita cessa di essere l’arte e diviene il visitatore stesso, le sue speranze, le sue delusioni, le sue sofferenze, i suoi desideri”. In tal modo “l’arte può essere vista e goduta per il suo potente effetto terapeutico”.
Credo sin qui siamo tutte/i d’accordo e a maggior ragione dovremmo esserlo noi italiani cui può spesso capitare di vivere, lavorare, essere quotidianamente immersi in un’opera d’arte, cui peraltro tendiamo, per abitudine, a non prestare più attenzione. A tutti credo sia comunque capitato, almeno una volta, di trovare conforto in un quadro, in una poesia in un brano musicale e magari di tenere quei tesori d’arte come una cassetta del pronto soccorso per momenti difficili. (E tralasciamo qui per brevità l’obiezione che la vista di un capolavoro possa causare anche uno stato almeno iniziale di disagio psichico come accade nella sindrome di Stendhal ). Ben vengano dunque le visite al museo, ad ogni museo, l’incontro con l’arte, il faccia a faccia con i suoi aspetti più rassicuranti e più inquietanti. Se la prescrizione di un museo, un concerto, una lettura ci possono aiutare a superare lo stress della pandemia e, forse ancor di più, del quotidiano, dovremmo farne tesoro. Una pratica simile aiuterebbe tra l’altro a superare quella sorta di di inibizione a varcare la soglia di un museo, una galleria, un teatro, una sala da concerto che ancora abita molte persone private dalla sorte di un’educazione culturale ed artistica. È vero infatti che il museo è a disposizione di tutte/i e che l’arte può riuscire ad aprire il cuore di chiunque ma certo chi è stato aiutato a capirne il linguaggio parte da una posizione privilegiata.
L’unica mia obiezione, per quel che vale, riguarda la definizione di arte come terapia. Sarò un inguaribile romantico ma per me la terapia è un affare a due, prima di tutto un rapporto che diviene poi, con adeguata competenza del terapeuta e motivazione del paziente (e anche un po’ di fortuna), percorso, faticoso superamento di una sofferenza intollerabile, lutto, desiderio di cambiamento e infine accettazione del nuovo e trasformazione. Per questo preferisco parlare, come fa Giovanna Melandri, di cultura come farmaco, come salute L’arte, la cultura in generale è certamente anche salute, pratica salutare cui possiamo avere accesso sia senza che, ora, con prescrizione medica, per trovare o ritrovare noi stessi.
Immagine tratta da: MAXXI the walk