Ho la sensazione che le nostre parole di questi tempi si gelino nell‘aria ancor prima di giungere al nostro interlocutore, per usare la splendida metafora della scrittrice russa Maria Stepanova
Non è però la temperatura atmosferica a determinare questa singolare forma di congelamento quanto l’irritabile fragilità del nostro stato d‘animo sempre meno capace di lanciare al prossimo scintille di dialogo e sempre più incline ad una chiusa ed algida difesa. Dopo due anni di incertezza, di sacrifici e spesso di dolore, dopo la speranza che tutto andasse bene, la constatazione che molto è andato male, dopo la rinnovata illusione che l‘Italia fosse per la sua ottima campagna vaccinale d’esempio per l‘Europa, siamo, come tutti gli altri paesi europei meno vaccinati e meno prudenti di noi, invasi da Omicron e di nuovo con il culo per terra. Che parole possono uscire allora dalle nostre bocche stanche se non di rabbia e di desolazione? Se fino a qualche settimana fa l’aggressività si rivolgeva ancora compatta contro un nemico comune, i no-vax, rei della mancata definitiva vittoria sul virus, in cui ancora però speravamo, ora ognuno va per conto proprio alla caccia del suo personale nemico con le proprie armi. Ognuno che abbia un po‘ di dimestichezza con i temi e i numeri della pandemia – e ormai l’abbiamo tutti – ha nel frattempo trovato il proprio cavallo di battaglia per sconfiggerla o comunque alleviarne gli effetti: lo smart working, la ventilazione nelle scuole, i test attendibili, le statistiche vere, le mascherine di un certo tipo, il ripristino del diritto individuale, dell’umanità sull‘ economia, l’accesso alla psicoterapia per tutte/i quelli che ne hanno bisogno – questo, se non si fosse capito, è il mio). Tale cavallo di battaglia non è solo il nostro argomento preferito, quello con cui ci facciamo belli agli occhi degli altri, ma rappresenta anche il nostro inseparabile orsacchiotto di peluche, la nostra coperta di Linus (il nostro oggetto transizionale, direbbe la psicoanalisi). Non solo, quell’argomento è diventato per ciascuno di noi un chiodo fisso (un’idea prevalente, come si dice in psicopatologia), un criterio interpretativo dell’intera realtà, un’arma di difesa e spesso anche di offesa con la quale soggiogare l’avversario. Anche se presentiamo il nostro argomento sotto le attraenti forme di un altruistico contributo al bene comune, lo usiamo spesso per sfoggiare le nostre non richieste competenze, per non dover dialogare o ancora come grimaldello per scardinare le difese altrui. Ogni argomento ha naturalmente in sé ha una sua obiettiva validità ma è il modo assoluto, anzi assolutistico con cui lo usiamo a determinarne il limite. Naturalmente lo smart working è utile e doveroso in pandemia, così come la ventilazione con filtri nelle scuole, il rispetto della libertà individuale etc etc ma la vittoria sul virus e a maggior ragione le sorti dell’umanità non dipendono dalla messa in atto di un singolo aspetto, per quanto utile e rilevante esso possa essere. Fin qui possiamo talvolta, peraltro non sempre su Twitter, arrivarci. Ma, come i bambini, non siamo disponibili a cedere il nostro argomento-giocattolo se prima l’interlocutore non ha ceduto il suo. Non si può parlare di riapertura delle scuole se prima non c’è la ventilazione con i filtri, non si può accettare l’obbligatorietà della vaccinazione anti-COVID-19 se prima non si applica lo smart working, non si può parlare di bonus per lo psicologo se prima non si attua una riforma strutturale etc. Il problema, ancora una volta, non sta nell’argomento in sé, o nella necessaria contrattazione umana e politica ma nell’irascibile intolleranza che si cela sotto quell’argomento. Quell’intolleranza, spinta spesso fino all’aggressività, proviene a sua volta dalla fragilità che ci scorre dentro come un fiume carsico. Privati della nostra confortante normalità, logorati dall‘ansia, scavati dalla persistente incertezza, disorientati dall’insicurezza, abbiamo bisogno di aggrapparci a una qualche irrefutabile certezza e lo facciamo con l’intolleranza della disperazione. Come facciamo a fidarci delle previsioni e raccomandazioni se cambiano in continuazione, se la quarantena da 10 si riduce a 7 giorni, e per i vaccinati non c’è? Se poi si vive, come a me capita, a cavallo di tre nazioni, la variabilità assume contorni grotteschi: in Svizzera i Cantoni hanno la facoltà di decidere se mantenere la quarantena a 10 giorni, ridurla a 7, forse a cinque mentre c’è chi propone di abolirla. L‘Austria, che aveva per prima previsto a partire dal 1 febbraio l‘obbligatorietà della vaccinazione – cosa che in Svizzera provocherebbe con certezza una rivoluzione nazionale – vede le sue leggi messe in forse dalla società (Elga) che gestisce le tessere sanitarie. L‘Elga ha infatti comunicato di non essere stata coinvolta nella stesura del testo di legge e che il registro vaccini non sarà pronto prima di aprile Ricordo ancora quando due anni fa alla dogana tra Svizzera e Austria i doganieri austriaci indossavano la mascherina e quelli svizzeri no e sto parlando di nazioni certo non prive né di senso critico né di mentalità scientifica. Non sono alla ricerca di un consolatorio quanto insignificante mal comune mezzo gaudio.
Si tratta piuttosto di avere il coraggio di individuare, sotto l‘indisponente o rabbiosa intolleranza che, a seconda delle occasioni, caratterizza, chi più chi meno ;-), tutti noi, la fragilità nascosta, dalla quale deriva il disperato bisogno di aggrapparsi ad una certezza per non essere travolti dall’insicurezza. Le certezze dei nostri cavalli di battaglia sono tuttavia transitorie e mutevoli come la curva dei contagi, mentre la nostra fragilità rimane e anzi aumenta se non abbiamo il coraggio di riconoscerla e accettarla. Rischia di trasformarsi in risentimento ed intolleranza. La rabbia, l’aggressività, la protesta – fintanto che si mantiene nel rispetto della libertà altrui – sono certo non solo sentimenti comprensibili ma anche necessari strumenti di trasformazione della realtà. Se però una rabbia cieca e distruttiva fa gelare nell’aria le parole del dialogo tra di noi, rimaniamo soli con la nostra fragilità davanti al virus.