Sareste disposti a dare un passaggio a una persona che sanguina visibilmente da un‘improvvisata fasciatura alla mano? Se siete così sicuri della risposta, provate a domandare a un mio amico che dopo aver inutilmente provato a farsi dare un passaggio nelle condizioni suddette, ha deciso di recarsi in ospedale con il bus (siamo in Svizzera, i bus sono frequenti e regolari e le autoambulanze costano care). @MariaRitaMilesi nel suo bel post “Il buon samaritano” ha descritto i fattori che influenzano la scelta di aiutare o meno una persona che si trovi in una situazione di emergenza. Contano il numero delle persone presenti: maggiore il numero, maggiore è la diffusione di responsabilità e dunque minore la probabilità che qualcuno aiuti davvero, la credibilità della vittima e della sua narrazione, la maggiore o minore ambivalenza che la persona e la situazione possono scatenare in noi. Come conclude Maria Rita Milesi “di tutti gli elementi che influenzano la propensione dei presenti a lasciarsi coinvolgere, nessuno ha un effetto più profondo dell’ambiguità o della mancanza di ambiguità del fatto.”
E se questa o un’analoga situazione ci accadesse nella realtà virtuale, in Meta tanto per dire, la nostra risposta sarebbe la stessa? A giudicare da un interessante studio di qualche anno fa della Sissa di Trieste a cui ha partecipato anche, per la parte relativa all’interazione uomo-macchina, Luca Chittaro dell’università di Udine, il nostro comportamento sarebbe più altruistico.
I ricercatori hanno ricreato nella realtà virtuale immersiva la situazione di un edificio in fiamme dal quale una persona cerca di scappare Quando è ormai in vista dell’uscita e con poca energia vitale a disposizione si trova di fronte ad un ferito impossibilitato a muoversi che chiede aiuto e che pone dunque al probando il dilemma se prestare soccorso a rischio della propria vita oppure fuggire a rischio del proprio onore e del conseguente senso di colpa. Ebbene, più dei due terzi dei partecipanti al test, per l’esattezza il 65 per cento, ha scelto di aiutare la persona impossibilitata a muoversi che chiedeva aiuto mettendo a rischio la propria vita virtuale. Dallo studio è emerso altresì che i probandi altruistici avevano evidenziato una maggiore preoccupazione per il benessere altrui in un questionario svolto prima del test. Essi presentavano inoltre alle tecniche di neuro-imaging un ingrandimento di un’area del cervello, l’insula anteriore destra, che è coinvolta nell’elaborazione delle emozioni sociali.
In uno studio precedente della Plymouth University, pubblicato su PLoS One i partecipanti dovevano decidere se spingere una persona da un ponte per impedire a un treno di uccidere cinque persone sulla linea ferroviaria sottostante (una modifica del test del trolley). Metà dei probandi venivano posti di fronte al dilemma sulla base della sola lettura della situazione, l’altra metà sperimentava il test in una condizione di realtà virtuale immersiva. Ebbene solo il 20% di quelli a cui era stato richiesto un giudizio sulla base della sola lettura consideravano moralmente accettabile gettare l’uomo dal ponte. Questa percentuale saliva invece al 70% tra coloro che avevano vissuto l’azione in una condizione di realtà virtuale immersiva. (La frequenza cardiaca delle persone poste di fronte al dilemma morale in condizioni virtuali era significativamente aumentata rispetto sia alla sola situazione di giudizio che alle attività virtuali di controllo). I ricercatori sono giunti pertanto alla conclusione che “l’azione morale può essere vista come un costrutto indipendente dal giudizio morale” e che dunque il comportamento sarà diverso a seconda che la persona sperimenti l’azione morale o le venga richiesto un giudizio
In un altro studio la realtà virtuale è stata utilizzata per simulare emergenze come l’arresto cardiaco improvviso e la reazione degli astanti alla situazione. Anche questa ricerca ha dimostrato che tutte le 4 fasi di intervento degli astanti in una situazione di emergenza cioè 1) rilevare la situazione come un problema, 2) interpretare quando è opportuno intervenire, 3) riconoscere la responsabilità personale di intervenire e 4) sapere come intervenire, vengono migliorate da una precedente esperienza con la realtà virtuale immersiva.
Per questo motivo la realtà virtuale è stata sempre più definita, con un po’ di esagerazione, la “macchina dell’empatia definitiva” poiché consente agli utenti di vivere qualsiasi situazione da qualsiasi punto di vista e dunque anche quello dell’altro, mettendosi nei suoi panni. In un’altra ricerca sono stati condotti due esperimenti per confrontare gli effetti a breve e lungo termine di un’attività prospettica tradizionale e di un’attività prospettica in realtà virtuale immersiva con lo scopo di mettersi nei panni delle persone che vivono per strada. I risultati dello studio mostrano che nel corso di otto settimane i partecipanti in entrambe le condizioni hanno riferito di sentirsi empatici e connessi ai senzatetto a tassi simili, tuttavia, i partecipanti che sono diventati senzatetto in VR hanno avuto atteggiamenti più positivi e duraturi nei confronti dei senzatetto e hanno firmato un petizione a sostegno dei senzatetto a un tasso significativamente più alto rispetto ai partecipanti che hanno svolto il compito in modo tradizionale. Analogamente altri più recenti studi hanno dimostrato che assistere alla violenza fisica in spazi virtuali immersivi ha portato i partecipanti ad assumere la prospettiva delle vittime e a comprendere meglio il loro stato emotivo cosicché l’esposizione controllata a eventi traumatici o violenti può essere utilizzata per il trattamento.
L’impiego della realtà virtuale immersiva si sta dimostrando dunque promettente per stimolare, entro certi limiti, l’empatia e comportamenti pro sociali, ma anche per vincere resistenze e paure. D’altro canto sappiamo da tempo dagli studi psicologici e sociologici che la migliore prevenzione di ogni forma di razzismo è l’incontro.