Speranza oltre la guerra

„Shakespeare venne bandito dalle scene tedesche, Mozart e Wagner dalle sale da concerto francesi ed inglesi, mentre i professori tedeschi asserivano che Dante fosse un vero germanico e quelli francesi che Beethoven fosse belga… Non bastava che ogni giorno migliaia di pacifici cittadini di quei paesi si ammazzassero a vicenda al fronte: no, si dovevano insultare e oltraggiare anche i grandi defunti delle nazioni nemiche, da secoli muti nelle loro tombe.… A poco a poco in quelle prime settimane di guerra del 1914 divenne pian piano impossibile scambiare una parola ragionevole pressoché con chiunque. Persino i più pacifici, i più miti erano come ebbri e accecati da una nebbia di sangue… „

Nazionalità e date a parte, queste righe di Stefan Zweig (Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Newton Compton, pagg 1511-16) potrebbero essere state scritte oggi. Non solo scrittori, musicisti e artisti russi vengono censurati, personaggi storici ucraini frettolosamente rivisitati e denigrati ma gli stessi intellettuali italiani si accusano di essere filo Putin o filo Nato, bellicistici o imbelli pacifisti, massacri di uomini e donne vengono messi in dubbio prima ancora di venir pianti. Cosa c’è di nuovo? È la guerra, mi si dirà, con il suo carico di odio e di violenza, con o senza emoglobina. Cosa sono neppure cent’anni di pacifica convivenza a confronto dei milioni di evoluzione naturale e dei millenni di guerre e violenze?

Rileggevo in questi giorni le lettere dei soldati bresciani caduti nella prima guerra mondiale raccolte in Isonzo Infame da Tullio Cavalli, mio adorato e compianto docente del liceo, o meglio rileggevo gli stralci che ne ho postato anni fa su Twitter #isonzoinfame non possedendo più ora il libro – anche questo è digitale. In poche righe, scritte in un miscuglio quanto mai significativo ed efficace di italiano e dialetto, quei “pacifici cittadini” strappati ai loro affetti, ai campi e alle stalle, riescono a dire tutta l’atrocità della guerra e degli esseri umani

“Caro Padre io mi ritrovo cua in prima linia momenti permomenti spetto lamorte”

“Ah! Cara #mamma,
i cridi il sangue in quel giorno in quel momento. è una cosa; non posso spiegarmi! perché?
il dolore e le lagrime che ho soferto e tutt’ora soffro per i miei cari asai combatenti fratelli e compagni,….mi sento a sofocarmi perché e stata troppo limpressione di quei giovani che mi a fatto.
Non vi posso spiegarvi di più perché non tengo coraggio di scrivervi tutto ciò che è accaduto nel giorno 30 della nostra ferocie avansata“

Noi ora, grazie anche a giornalistə, che rischiano la vita per farlo, siamo in grado di vedere e ascoltare, gran parte di quello che è accaduto, sta accadendo in quell’inferno che è ora l’Ucraina. Molti di noi si chiedono, con le parole di un altro soldato bresciano

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Ha ancora posto la speranza in mezzo a simili atrocità e in un momento in cui anche gli intellettuali sembrano far a gara di cinismo?
Cerco la risposta nelle parole di Gabriel Marcel – rivisitate da The Marginalian – che nel suo Homo Viator, introduzione alla metafisica della speranza scrive all’amico disperato
“Il semplice fatto che mi poni la domanda costituisce già una sorta di prima breccia nella tua prigione [di disperazione]. In realtà non è semplicemente una domanda che mi fai; è un appello che mi rivolgi, e al quale posso solo rispondere esortandoti non solo a dipendere da me, ma anche a non arrenderti, a non lasciarti andare e, anche se molto umilmente e debolmente, a comportarti come se questa Speranza vivesse in te… Ciò che è importante comprendere a fondo è che se si sposta al livello dell’intersoggettività, il problema cambia natura: la persona disperata cessa di essere un oggetto su cui ci si interroga [e] riprende la sua condizione di soggetto e, al tempo stesso, è integrato in un rapporto vivo con il mondo degli uomini, dal quale si era separato.”

Se in trincea, sotto i bombardamenti, si aspetta solo la morte, ma si spera ancora, nonostante tutto, nella vita, non siamo chiamati noi ad aspettarci qualcosa di più dalla relazione con l’altro? Il presupposto di tutta la vita spirituale, se non di ogni relazione, mi sembra dica Gabriel Marcel, consiste proprio nell’offrire l’ aspettativa che l’altro ci possa dare qualcosa, che pure noi non possiamo né prevedere né definire. Per certi versi “per quanto possa sembrare paradossale, aspettarsi è in qualche modo dare”, coltivare la speranza che l’altrə abbia qualcosa da darci o da dirci e offrigli questa possibilità. “Si può parlare solo di speranza là dove c’è l’interazione tra colui che dona e colui che riceve” Non è forse questo il presupposto di ogni dialogo? Non a caso il dialogo diviene impossibile proprio quando in anticipo non ci si aspetta alcunché dall’altrə. È il presupposto di ogni forma di cinismo, che è appunto una sorta di disillusione preventiva per evitare ogni delusione. Ma impedendomi di aspettarmi qualcosa dall’altrə, di vedere nell’altrə una qualsiasi fonte di originalità e di creazione, gli tolgo la dignità di soggetto, lo degrado a cosa che posso silenziare, censurare, bandire, bloccare, far sparire dal mio mondo…
“Si può parlare solo di speranza – sostiene Gabriel Marcel, e io aggiungerei di pace – solo là dove c’è l’interazione tra chi dona e chi riceve, dove c’è quello scambio che è il segno di tutta la vita spirituale”

Immagine tratta da: collection.corita.org