Processi psichici

Due tragici fatti di cronaca, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, hanno destato in molti di noi, oltre che profondo sgomento, anche incredulità per la loro ferocia: una donna di 37 anni ha abbandonato per sei giorni a casa la figlia di 18 mesi ritrovandola morta al suo ritorno. Un uomo di 32 anni ha picchiato a sangue un ambulante nero, strangolandolo infine a mani nude mentre gli astanti riprendevano la scena con i loro cellulari. La cronaca nera è sempre brutale ma talvolta, come in questi casi, sembra superare ogni limite di efferatezza. Si sono poi avviati nell’opinione pubblica, sui mass media e social media dibattiti che si sono ben presto trasformati in processi mediatici, polemiche e liti a distanza, fomentate, nel caso del delitto dell’ ambulante nero, dal sospetto che xenofobia e razzismo siano stati i fattori scatenanti dell’omicidio. Ha destato inoltre incredulità e scalpore che nessuno dei passanti sia intervenuto a difesa della vittima e i passanti abbiano invece filmato il delitto con i loro cellulari. In modo analogo, anche se in forma più attenuata, ci si era chiesti, nel caso della madre omicida, come fosse stato possibile che precedenti comportamenti gravi della donna (altri abbandoni della bambina anche se per tempi più brevi) non avessero innescato già prima doverosi provvedimenti di tutela nei confronti della bambina e di segnalazione della madre.


Al di là dell’impiego strumentale di tali tragici avvenimenti a fini politici o meglio partitici in campagna elettorale, questi dibattiti on e offline esprimono anche un sincero bisogno di esternazione e di dialogo di fronte all’orrore. Già spaventati dalla pandemia, dalla guerra, dal cambiamento climatico e dall’emergenza energetica, ci domandiamo atterriti come sia possibile vivere in una nazione, in un mondo in cui le mamme abbandonano alla morte le figlie e la violenza più cieca, brutale e forse razzista si abbatte sui più deboli. Dopo lo sgomento, l’incredulità, la prima reazione è generalmente lo sdegno (“come è possibile che?”) in cui si mescolano la vergogna per la ferocia, la condanna della stessa e l’attribuzione ad altri della colpa: la madre degenere, il razzista, gli astanti che anziché intervenire filmano, i vicini o i servizi sociali che fanno finta di non vedere. Si tratta tuttavia di una naturale reazione psicologica, individuale e collettiva, di fronte all’orrore. Il ribrezzo ci impone di allontanarci, di attribuire ad altri la causa dell’orrore stesso e di ribadire la nostra innocenza (“io avrei fatto, detto etc”). In realtà gli studi di psicologia sociale dimostrano che la scelta di aiutare una persona in condizioni di bisogno è tutt’altro che scontata e dipende, tra l’altro, dal numero delle persone presenti, nel senso che maggiore è il numero, maggiore è anche la diffusione di responsabilità e dunque minore la probabilità che qualcuno aiuti davvero, dalla credibilità della vittima, dall’ambivalenza che la persona e/o la situazione possono scatenare in noi etc. Esiste inoltre una significativa differenza tra il grado di altruismo reale e quello virtuale. Insomma nella realtà virtuale immersiva (e nella nostra immaginazione) siamo tendenzialmente eroi ed eroine, nella realtà quotidiana abbiamo paura, siamo ambivalenti, spesso indecisi, tardivi ed imprecisi nei nostri giudizi ed inefficaci nelle nostre decisioni. Eppure proprio questi nostri limiti potrebbero aiutarci ad andare oltre il comprensibile e doveroso sdegno iniziale per cercare di comprendere i processi psichici che operano in noi. La consapevolezza della nostra fragilità potrebbe insomma aiutarci a capire anziché giudicare. Ma l’orrore ci fa troppa paura e ribrezzo. A questo punto intervengono i pregiudizi che consentono di tenere a debita distanza l’angoscia di aver qualcosa a che spartire con i “mostri” e i loro efferati crimini. Si può trattare di pregiudizi di genere, di razza, ideologici o altro. Il meccanismo è lo stesso: identificando il colpevole come appartenente ad un’altra categoria (uomo, donna, di una presunta inesistente razza o invece razzista, di destra, sinistra, indifferente, vile etc.) certifichiamo automaticamente la nostra appartenenza ad un’altra categoria, naturalmente migliore e che nulla ha a che fare con quella del colpevole.

La cosa assume contorni ancora più inquietanti quando il pregiudizio diviene il disturbo psichico. Qui le possibilità sono le più disparate. Il disturbo psichico viene da taluni/e negato al colpevole a priori, prima ancora che siano stati accertati i fatti, in quanto viene ritenuto un’ invenzione di avvocati/e, psichiatri/e, giornalisti/e. A questi/e ultimi/e viene addirittura rimproverato di averlo ipotizzato nella descrizione dell’accaduto come se volessero intenzionalmente proporre una narrativa giustificazionista o comunque accondiscendente nei confronti del colpevole. Secondo questa convinzione il disturbo psichico sarebbe un trucco per sottrarre il colpevole alle proprie responsabilità. Come se un disturbo psichico cancellasse ogni colpa. Non è affatto così. L’incapacità di intendere, di essere coscienti cioè che l’azione compiuta è un reato, è limitata ai soli disturbi psicotici gravi (fasi acute della schizofrenia, della mania o del disturbo schizo-affettivo) e deve essere dimostrata nei fatti nel caso specifico. Nei casi di dipendenza al contrario l’assunzione di alcool o sostanze stupefacenti prima dell’azione delittuosa è considerata un’aggravante, non un’attenuante. (Nel caso specifico della madre omicida l’eventuale possibile diagnosi di un disturbo antisociale di personalità non ridurrebbe certo la sua responsabilità, essendo lei consapevole delle conseguenze che l’abbandono poteva provocare sulla bambina. Nel caso dell’uomo che ha ucciso l’ambulante nero la presunta pregressa diagnosi di disturbo borderline di personalità potrebbe spiegare il suo ridotto controllo degli impulsi aggressivi ma anche in questo caso ciò non intaccherebbe la sua capacità di intendere. Qualora fosse davvero affetto anche da un disturbo bipolare, questo inficerebbe la sua capacità di intendere solo se fosse stato maniacale al momento dell’azione delittuosa). Altri/e partono invece dal principio che una diagnosi ad es. di disturbo borderline di personalità sia sufficiente per giustificare provvedimenti di privazione della libertà, cosa assurda e per fortuna impossibile.

Senza dilungarmi qui in particolari tecnici, per i quali non ho nemmeno la competenza, non essendo uno psichiatra forense, vorrei solo sottolineare l’importanza di un atteggiamento rispettoso e consapevole verso i disturbi psichici, e verso chi ne è portatore. Non possiamo un giorno rallegrarci perché il bonus psicologico sembra aver intercettato il bisogno di cura di molte persone e il giorno successivo presentare una totale insensibilità nei confronti di fenomeni psichici, utilizzando solo criteri anzi pregiudizi ideologici per interpretarli. I processi psichici, come quelli biologici, hanno le loro leggi, i loro decorsi, possono essere compresi e favorevolmente indirizzati. Dobbiamo avere però il coraggio di superare lo sdegno moralistico (“vergogna!”) e anche i pregiudizi ideologici (“ha agito così perché è…”). È possibile capire qualcosa dei nostri processi psichici solo ascoltando – Borgna parla splendidamente di un “ascolto gentile” – riflettendo con la persona, immaginando diverse possibilità, alternative, tenendo presente le mille sfumature di quel “guazzabuglio” che è il cuore umano. D’altro canto non credo che alcuno di noi si sentirebbe capito se, andando per la prima volta da uno psicoterapeuta, venisse interrotto alla seconda frase e si sentisse dire qual è il suo problema. Spesso sui mass e social media noi ci fermiamo alla prima, mescolandovi poi schemi interpretativi presi da tutt’altro contesto. Difficilmente ci sentiremmo attratti da un giallo che fin dalle prime righe o dalle prime immagini svela chi è il colpevole. Certo, di fronte al peso della realtà, all’impellenza dell’insicurezza e all’angoscia del dolore il bisogno di individuare subito il colpevole è forte. Eppure, se vogliamo capire qualcosa degli altri e in definitiva di noi stessi, dobbiamo tollerare la suspense, anche se i primi a non sopportarla sono psichiatri e psicoterapeuti che, sapendo poco o nulla del caso, azzardano in televisione diagnosi e prognosi. L’orrore purtroppo esiste, ed è generalmente frutto di una disperazione soggettiva, non sempre comprensibile. Ne danno testimonianza, tra l’altro, due scrittori quali Emmanuel Carrére e Nicola Lagioia, che nei loro romanzi, raccontano proprio  due tragici casi di cronaca. Ne L’avversario Carrére riporta la storia di un uomo che, dopo 17 anni di una vita apparentemente tranquilla e affettuosa con la moglie e due figli, il 9 gennaio 1993 lì uccide,  il giorno successivo uccide anche i suoi genitori,  infine incendia la sua abitazione, cercando  senza successo di suicidarsi. “L’inchiesta giudiziaria svelò che per diciassette anni Romand aveva mentito alla sua famiglia, affermando di essersi laureato in medicina e di lavorare come ricercatore all’OMS di Ginevra. Le stragi erano da attribuire al desiderio di evitare la vergogna che sarebbe derivata dalla scoperta delle sue menzogne”. Lagioia  narra la vicenda di due ragazzi “di buona famiglia”, che in un anonimo appartamento della periferia romana, seviziano per ore un ragazzo più giovane conducendolo ad una morte atroce.
Quando siamo tentati di trovare la chiave dell’orrore in un paio di stereotipi o veniamo indotti a farlo da politici di pochi scrupoli conviene leggere quelle non facili pagine, per comprendere l’enorme distanza che separa i complessi e drammatici processi psichici che si svolgono dentro di noi da affrettati processi mediatici. 

Suggerimento musicale a cura di @marcoganassin Non insegnate ai bambini, di Giorgio Gaber 


Buone ferie e a settembre!