La storia del futuro

Per una volta vorrei raccontare una vicenda del passato, che ha peraltro indubbie conseguenze sul futuro. È quella dell’emigrazione italiana in Svizzera, paese in cui risiedo dal 1994. I volti di questa emigrazione sono indubbiamente molteplici. Tra gli emigrati italiani in Svizzera vi è ad esempio Alessio Figalli, vincitore della Medaglia Fields (il “Nobel” per la matematica), oggi professore all’ETH di Zurigo. Insieme a lui, a partire dal 2007 hanno cominciato ad arrivare in Svizzera molte/i italiane/i laureati/e e altamente specializzate/i. Si calcola che il 50% dei nuovi emigranti italiani italiani in Svizzera porti con sé una laurea. Molti di loro hanno trovato posti di lavoro molto buoni in ambito soprattutto scientifico.

La vecchia emigrazione 

L’emigrazione di cui mi parla la maggior parte dei miei pazienti italiani più anziani è però di tutt’altro genere. Si inserisce in quel flusso migratorio cominciato ancora a fine ottocento e proseguito, con diverse ondate di sempre maggiore intensità, prima dal Nord e poi dal Sud Italia fino agli anni 60, 70, quando James Schwarzenbach, postosi a capo del movimento xenofobo in Svizzera, lanciò un referendum per impedire l’ingresso di altri italiani e imporre la cacciata di quelli che non avevano ancora un permesso stabile. Non era certo la prima manifestazione di xenofobia. Ancora nel lontano 19 giugno del 1893, scoppiò a Berna la prima rivolta anti-italiana, detta del Käfigturm. A dare l’avvio alla rivolta furono una cinquantina di manovali bernesi rimasti senza lavoro che demolirono ponteggi e picchiarono gli operai edili italiani presenti accusandoli di percepire paghe troppo basse. Tre anni dopo fu la volta di Zurigo, nel cui quartiere operaio di Aussersihl il 26 luglio 1896, si scatenò per diversi giorni una vera e propria caccia all’uomo contro gli italiani. Vittime delle ritorsioni, nei giorni seguenti, migliaia di operai italiani fuggirono da Zurigo insieme ai propri cari. “Il più importante giornale locale, la Neue Zürcher Zeitung (NZZ), in quel periodo scrisse: “Ad Aussersihl, si è gradualmente sviluppata una profonda amarezza contro i lavoratori italiani immigrati, muratori e lavoratori della terra. La ragione di questa agitazione non ingiustificata sono i numerosi tafferugli notturni in cui i focosi figli del Sud, che sanno come evitare le liti e gli scontri da sobri, fanno uso dei loro coltelli, e in cui sono stati commessi cinque omicidi in poco tempo, sempre per mano di italiani ubriachi”. In realtà il problema era socio-economico, la Svizzera stava vivendo una profonda trasformazione essendo passata, dall’essere un paese di emigrazione a un luogo di immigrazione, il ché però creava anche un forte malcontento tra le fasce più povere, che si sentivano le più minacciate e che identificarono negli immigrati italiani – i più numerosi all’epoca – il capro espiatorio perfetto.

L’emigrazione del dopoguerra 

Conclusa la tragica fase delle due guerre mondiali l’emigrazione italiana in Svizzera tornò a crescere. Noi italiani arrivammo in Svizzera in quasi due milioni dal 46 al 68, venivamo ancora accusati di lavorare sotto costo, di rubare il lavoro agli svizzeri. Potevamo risiedere dapprima solo come stagionali per nove mesi all’anno e dovevamo tornare per 3 mesi in Italia. Ci denigravano e insultavano, in Svizzera tedesca ci chiamavano “cinq” (da 5 nel gioco della morra, molto praticato allora da noi e nella confederazione vietato) in Svizzera francese ci apostrofavano con “Ritals”, “Piafs”, “Pioums”, “Maguttes”… Alle stazioni di frontiera venivamo fatti completamente spogliare e dovevamo fare una doccia prima di essere cosparsi di DDT e passare la visita medica. Solo dopo che una 23enne prese freddo durante la visita medica a Briga e morì di broncopolmonite, la procedura venne modificata.

Noi stagionali risiedevamo spesso in baracche coi letti a castello, un cesso per cinquanta persone, il lavatoio in comune, fornelletti per cucinare, fili stesi per i panni, ai margini delle città, vicino ai cantieri. I figli di noi stagionali, non potevano risiedere, per legge, in Svizzera e venivano tenuti o da parenti in Italia o nascosti nelle case. Non potevano fare rumore né giocare perché altrimenti venivano denunciati ed espulsi. Alla realtà dei bambini nascosti (si calcola circa 30.000 complessivamente) si ispirano film e romanzi come “Lo stagionale” (di Bizzarri) e il recente bel romanzo „Chiamami sottovoce“ di @NicolettaBorto2. Anche nel film Pane e cioccolata con Manfredi se ne parla. L‘odio verso noi italiani era tale che non era raro trovare cartelli che recitavano “Vietato ai cani e agli italiani” o „non si affitta agli italiani“. In quel clima, quando i migranti eravamo noi, c’erano tanti che volevano cacciarci via, perché venivano “prima gli svizzeri”. Ci fu appunto un referendum nel 1970. Se avesse vinto il suo promotore, in 300 mila di noi avrebbero dovuto fare le valigie. Perse per soli 100 mila voti, il 46% contro il 54 %. A questa vicenda è dedicato il libro „Cacciateli!“, scritto dal giornalista di Repubblica Concetto Vecchio.

Un esempio di integrazione riuscita 

Da allora le condizioni di lavoro e di vita di noi italiani in Svizzera sono andate sempre migliorando. I figli e i nipoti di noi italiani, allora respinti e discriminati, hanno studiato e ricoprono posti di responsabilità. Non siamo più “cinq”, “maguttes” ma una forza lavoro molto apprezzata per flessibilità e ingegno. Noi italiani in Svizzera siamo ormai un esempio di integrazione riuscita. Non credo lo dobbiamo alla particolare empatia degli svizzeri (non proprio degli esempi di calore umano) e nemmeno solo alla nostra straordinaria capacità di adattamento (molti emigrati delle vecchie generazioni non hanno imparato il tedesco nemmeno dopo 30 anni di permanenza in Svizzera). Sicuramente le chiavi per l’integrazione sono state l’istruzione, alla quale in Svizzera si può sempre accedere, la formazione continua, l’importanza data alla scienza e della ricerca, la possibilità di accedere ai posti di lavoro sulla base del merito e non dei rapporti di parentela o amicizia. È una storia dolorosa ma a lieto fine. L’integrazione è stata possibile. Ma si sa che la storia non si ripete. Molto più facile dimenticarla su una spiaggia.