Le parole, signori, sono tutto

„Le parole, signori, sono tutto“, scriveva @ManuelaPerrone in un suo tweet qualche giorno fa. Come non essere d’accordo? A maggior ragione se sono le parole di una sentenza. Quella in base alla quale Davide Fontana, l’uomo che ha ucciso la sua partner con 13 martellate in testa mentre stava girando con lei un video hard, l’ha sgozzata, ne ha sezionato il cadavere, l’ha conservato per quasi 3 mesi in un freezer, spacciandosi intanto per la vittima sui social e sul cellulare della stessa (rassicurando amici e parenti via sms e Whatsapp che la donna stava bene, che era in viaggio per lavoro a Dubai, che presto sarebbe rientrata in Italia), ha cercato di bruciarne i resti nel barbecue, per poi scaricarli in un burrone, quest’uomo non ha agito per motivi “abietti e futili”, ragion per cui è stato condannato non all’ergastolo ma a 30 anni di reclusione.

“In senso giuridico”

Lo sprovveduto lettore/lettrice potrà ingenuamente pensare di non aver letto bene il testo o di non aver ben compreso la sentenza, emessa dal Tribunale di Busto Arsizio, (Corte d’assise presieduta dal giudice Giuseppe Fazio, a latere la collega Rossella Ferrazzi e i popolari). Lo/la rassicuro. Proprio tali sono le conclusioni cui il Tribunale è giunto, avvalendosi anche di periti psichiatrici che hanno ritenuto l’imputato capace di intendere e volere.
Sono io a dovermi scusare per aver fin qui omesso un dettaglio importante, anzi decisivo. Secondo i giudici infatti l’imputato avrebbe agito per ragioni che non sarebbero state abiette né futili «in senso giuridico», il ché cambia, evidentemente, tutto.

La frustrazione 

La sentenza infatti ci illumina: «La causa scatenante non è da ritenersi turpe o spregevole più di ogni altro motivo che induca a un delitto cruento, poiché non è stata espressione di un moto interiore del tutto ingiustificato o un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale». Grazie a un fine e approfondito lavoro psicologico la Corte d’assise è giunta infatti alla conclusione che l’imputato «si è reso conto che la giovane e disinibita Carol si era in qualche misura servita di lui per meglio perseguire i propri interessi personali e professionali e che lo avesse usato, e ciò ha scatenato l’azione omicida. A spingere l’imputato non fu la gelosia ma la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dal senso di crescente frustrazione per essere stato da lei usato e messo da parte». Egli, acutamente, «si rese conto che ormai, dopo averlo in qualche misura usato, (la donna) si stava allontanando da lui, scaricandolo».

Insopportabile solitudine 

Proprio «l’idea di perdere i contatti stabili con colei che egli, per sua stessa ammissione e secondo l’amica testimone, amava perdutamente, da cui sostanzialmente dipendeva poiché gli aveva permesso di vincere la sostanziale solitudine in cui si consumava in precedenza e di vivere in modo finalmente diverso e gratificante, si è rivelata insopportabile». Nella sua puntuale e senza ombra di dubbio convincente ricostruzione psicologica, la corte conclude che «l’omicidio era (per l’imputato) un modo per venire fuori da questa condizione di incertezza e sofferenza non più sopportabile, innescata dalla decisione della stimolante donna amata di allontanarsi da lui»: la sua condotta, «tenuto conto del particolare momento in cui venne posta in essere, non può essere considerata futile», facendo quindi cadere l’aggravante.

Don Ferrante e le chimere

Ma la finezza giuridica ed argomentativa  della corte non si ferma qui. Coloro di noi che sono digiuni di diritto potrebbero magari intravedere una certa qual abiezione dell’imputato nel fatto che abbia smembrato in 18 parti il corpo della donna, l’abbia tenuto in freezer, abbia cercato di bruciarlo con il barbecue, prima di disfarsene e per tutto questo tempo si sia fatto passare per la vittima. Sarebbe nuovamente una tremenda ingenuità, che dico, un errore, per di più grave. Per fortuna la piena padronanza del diritto dei giudici della corte d’assise consente loro di evitare “il grave errore di desumere la crudeltà nel realizzare l’omicidio dalla raccapricciante, orripilante condotta successiva e in particolare dall’agghiacciante gestione del cadavere e dello spaventoso scempio fattone, che tanto orrore ha suscitato nell’opinione pubblica». Il ché mi ricorda un po’ l’acume di Don Ferrante nel dimostrare che la peste non esiste: “In rerum natura, ” diceva, ” non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno ne l’altro, avrò provato che non esiste, che ‘è una chimera.” Con analoga stringente logica, i giudici hanno dimostrato che le motivazioni dell’imputato non erano né abiette né futili “in senso giuridico”, che anzi l’abiezione dell’imputato è una mera chimera. (Gli sono anzi state concesse le attenuanti generiche «perché l’imputato, consentendo di acquisire molti atti d’indagini, ha fatto oggettivamente risparmiare tempi ed energie al processo». Magari anche un ringraziamento non ci starebbe male). A voler andare per il sottile si potrebbe trovare una certa qual differenza tra Don Ferrante e i giudici delle corte d’assise. Don Ferrante che, coerente con le sue argomentazioni, non si protesse e morì di peste, è una creatura letteraria, che non fa danno a nessuno. Le decisioni dei giudici di Busto Arsizio influiscono invece sulla realtà.

 

Intervista empatica 


Ne deve essere stato consapevole anche il giudice Giuseppe Fazio, che ha concesso un’intervista al Corriere della Sera. Sarebbe ancora una volta ingenuo immaginare che l’abbia fatto per avvicinare noi sprovveduti lettori/lettrici alla realtà giuridica.  Siamo piuttosto noi che dobbiamo leggere le motivazioni “nella loro concatenazione su concetti giuridici che hanno significato diverso rispetto alla Treccani”. Nell’intervista ci informa utilmente invece di aver capito, sulla scorta delle polemiche relative a “stereotipi di genere, vittimizzazione secondaria” “come si poteva sentire un pediatra ai tempi di Erode…”. Ci invita inoltre, empaticamente, a metterci nei panni della “sua” Corte d’Assise (che) affronterà un altro processo per un fatto altrettanto cruento. Come potrà farlo dopo tante inadeguate critiche? (Me lo domando effettivamente con lo strazio nel cuore). Dimostrandosi persona tutta d’un pezzo, forse non troppo avvezzo allo sterile diαlogo, conclude “Il giudice non è qui apposta per valutare le circostanze? Se no, ci dicano che possono fare a meno del giudice. E, al suo posto, metterci un juke-box”

L’articolo 61


Credo che forse più che con un jukebox, ci troveremo presto ad avere a che fare con Robot, non so se migliori o peggiori del giudice Fazio, ma questo è un altro discorso. Rimango ancora (appeso) alle parole di questa sentenza, che mi provocano un grave senso di rabbia, frustrazione e un’infinita tristezza.
Mi sono, per quel poco che posso, documentato su ChatGPT e su Internet. Ho appreso che l’articolo 61. Del codice penale prevede circostanze aggravanti comuni:
Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: 1) l’avere agito per motivi abietti o futili laddove “E’ abietto il motivo turpe, spregevole, che rileva nell’agente un tale grado di perversità da suscitare un senso di ripugnanza nella persona di media moralità; mentre è futile il motivo che è del tutto sproporzionato alla entità del reato commesso, secondo la valutazione media.”

Gelosia e “spinta forte dell’animo umano”


Un’altra sentenza, relativa ad un altro caso di feminicidio, giunto pure agli onori della cronaca per motivi analoghi, mi sembra illustri bene quanto la valutazione dei motivi futili e abietti si fondi sulla giurisprudenza passata, dunque su valutazioni socio-culturali pre-esistenti e spesso superate nella sensibilità comune e sia inoltre profondamente slegata dalle attuali concezioni psicologiche e neuro scientifiche. Eccone uno stralcio:

Sussiste la aggravante dei futili motivi – scrivono i giudici – «quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale».
Con riferimento alla contestata aggravante – si legge nelle motivazioni – «la manifestazione di gelosia può non integrare il motivo futile solo qualora si tratti di una spinta davvero forte dell’animo umano collegata ad un desiderio di vita in comune: costituisce, invece, motivo abietto o futile quando sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l’insubordinazione». (corsivo mio)

Ho messo in corsivo l’ultima parte perché mi sembra quanto mai calzante anche per il caso di Davide Fontana. Detta in parole semplici – che il giudice Fazio reputerebbe senz’altro incompatibili con “la concatenazione di concetti giuridici” da lui esigita – se l’uomo riesce a convincere i giudici di essere innamorato cotto della donna e di volerci passare la vita insieme e l’ha uccisa perché lei voleva andarsene, il motivo non è futile. Anzi è “una spinta davvero forte dell’animo umano”. (Mancava poco che scrivessero nobile). Se è così scemo da far capire che ha ucciso la donna per pura gelosia intesa come forma di possesso, allora il motivo è futile perché nel frattempo anche la giurisprudenza italiana si è aggiornata e lo spirito punitivo nei confronti dell’insubordinazione della vittima non viene (più) accettato come giustificazione.

È questa la libertà che una donna ha in Italia nel 2023?

Dopo essermi documentato, sono diventato ancora più arrabbiato, frustrato e triste. Provo un’infinita compassione per quella povera donna, di cui, per rispetto preferisco non fare il nome insieme agli altri, che dopo essere stata uccisa a martellate, sgozzata, smembrata, tenuta nel freezer, bruciata sul barbecue, gettata nel dirupo, non viene rispettata neanche da morta da chi dovrebbe fare e darle giustizia. Voleva semplicemente andarsene e trasferirsi dal figlio a Verona. È questa la libertà che una donna ha in Italia nel 2023?

Per puro caso, guardando il mio calendario letterario, sono incappato questa settimana nelle parole di Natalia Ginzburg, cui lascio la conclusione:

“Credo che la vita nel nostro Paese sarebbe migliore e più trasparente, se ognuno di noi si sforzasse almeno di superare l’oscurità del linguaggio, di rivolgersi con ogni parola al nostro prossimo, di non perdere mai di vista la realtà del nostro prossimo, di non ridere di lui, di non ingannarlo, di non umiliarlo.”

 

Immagine: Carol Maltesi