Ogni epoca viene probabilmente percepita come drammatica da chi la sta vivendo. Certo la nostra non si può dire assomigli ad una commedia ilare. Tra le tante guerre sparse nel globo ne abbiamo due particolarmente cruente e potenzialmente destabilizzanti vicino a noi. Il cambiamento climatico rischia di trasformarsi presto in catastrofe per l’intero pianeta. Abbiamo a disposizione un sistema digitale e un’intelligenza artificiale che potrebbero davvero rendere il mondo migliore per tutti/e quelli/e che lo abitano ma nel quotidiano, anche nel nostro relativamente benestante paese, le file alle mense dei poveri si allungano mentre la politica discute di super bonus per i condomini e sui social ci si divide tra indignazione e ammirazione per questo o quell Influencer.
Vita e relazioni
Naturalmente così è, da sempre, la vita, fatta di cose che appaiono o tanto lontane da risultare irraggiungibili o minacciose o così banali da sembrare senza senso. In realtà acquistano senso all’interno delle relazioni che noi viviamo con queste cose e più ancora con le persone con cui condividiamo o meno le cose stesse. Secondo un celebre apologo, il viandante che chiede a tre persone che stanno lavorando nel medesimo cantiere cosa facciano si sentirà forse dire da uno che non ha trovato un lavoro migliore, dall’altro che è felice di ricevere un salario sufficiente a provvedere ai bisogni della sua famiglia e da un altro ancora che sta partecipando alla costruzione di un’opera d’arte. È possibile poi che le risposte cambino anche nel corso della giornata a seconda della dinamica situazione emotiva di chi risponde e verosimilmente anche di chi domanda.
Parole che lasciano il segno
Talvolta capita però di imbattersi in parole che lasciano il segno, proprio perché vengono da persone che le vivono. A me è capitato con le parole dell’intervista di Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace, ingegnera, vicepresidente del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, attivista e simbolo della lotta iraniana alla dittatura, dal 2021 in carcere a Teheran, arrestata 13 volte e condannata a 31 anni e 154 frustate. In una mail al Corriere racconta la sua drammatica storia, le ripetute incarcerazioni che l’hanno privata per anni di ogni contatto con il marito e con i figli, che si sono recati a Oslo per ritirare il premio Nobel a lei assegnato lasciando una sedia vuota a significarne la mancanza.
L’hijab obbligatorio è uno strumento per sottometterci e dominarci
All’intervistatrice che ricorda che le autorità iraniane, dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute, le hanno negato il permesso di uscire dal carcere per una visita importante perché si è rifiutata di indossare l’hijab, lei risponde «L’hijab obbligatorio non è un dovere religioso o un modello culturale, né, come dice il regime, il modo per preservare la dignità e la sicurezza delle donne. L’hijab obbligatorio è uno strumento per sottometterci e dominarci. È uno dei fondamenti della teocrazia autoritaria e io lo combatto con tutta me stessa… Non indossare il velo nemmeno per una visita medica necessaria è la mia protesta e la mia forma di resistenza contro l’oppressore: non farò mai un passo indietro».
Sono rimasto stupefatto dal coraggio fermo e sobrio di questa donna, che pur soffrendo le pene dell’ inferno per sé stessa e soprattutto per la lontananza dei familiari, non accetta il benché minimo compromesso con i suoi persecutori, sposa, consapevolmente, la causa di tutte le donne iraniane e anche dal carcere continua a lottare “per la realizzazione della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza.”
Coraggio ed eroi
Mi domando se, trovandomi in una situazione simile, sarei capace di fare anche solo uno dei gesti di coraggio che Narges Mohammadi compie ogni giorno. Come sempre è la situazione in cui ci troviamo a svolgere un ruolo determinante nelle nostre azioni e la disperazione è talvolta capace di suscitare in noi un coraggio che nella grigia mediocrità del quotidiano sembra introvabile, anche se gesti di generosità e magari anche di eroismo possono accadere ovunque. La domanda non è tanto se abbiamo o meno bisogno di eroi. Sono probabilmente vere entrambe le cose. Abbiamo bisogno di persone disposte a combattere per la libertà non solo propria ma anche altrui ed è al tempo stesso felice il popolo che non ha bisogno di eroi. Il problema è come fare a trasformare la lotta per la libertà di singoli coraggiosi individui in movimento di popolo capace di abbattere la perversione del potere. L’esempio delle donne iraniane, anche se tutt’ora non coronato dal successo e passato in secondo piano sulla scena internazionale, è uno straordinario modello innovativo. La rivolta è nata dalle donne e dalle donne trasmessa agli uomini che le accompagnano e le sostengono.
Nomina nuda tenemus?
Cosa possiamo fare noi da fuori? È l’eterno problema dell’impotenza che rischia di diventare indifferenza e al tempo stesso fatica a trovare gesti concreti per esprimersi. Narges Mohammadi, in conclusione della sua Mail scrive: “È importante che il mondo veda e riconosca la nostra lotta e i cambiamenti nella società iraniana. Mi aspetto che i governi stranieri e l’opinione pubblica globale garantiscano i diritti umani e il processo di democrazia in Iran”. Temo che dopo aver riletto per l’ennesima volta queste parole, anch’io andrò a cercare, come sempre, regali di Natale non proprio indispensabili e le parole di Narges Mohammadi scivoleranno via dalla mia memoria come tante altre. Nomina nuda tenemus?