La legge della forza in politica, pur se con lievi variazioni sul tema, è rimasta pressoché immutata rispetto a quella illustrata più di duemilacinquecento anni fa da Tucidide nel discorso degli Ateniesi e dei Meli.
„Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza“.
Ateniesi e Spartani
Così nel 416 a.C. gli Ateniesi (gli USA di allora) rispondevano ai Melii che, nell’ambito della guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta (la Russia del tempo), desideravano mantenere la loro neutralità e non volevano accettare l’ultimatum, assoggettarsi o perire, posto loro dagli Ateniesi.
Groenlandia ed Ucraina come prede da dividere
Anche Trump e Vance quando rivendicano agli Stati Uniti la Groenlandia lo fanno sulla base della stessa legge naturale del più forte, anche se condita da poco credibili critiche alla Danimarca, Stato di cui la Groenlandia, pur in forma semi-autonoma fa parte. Anche la Russia fa riferimento alla stessa legge della forza, anzi, passando dalle parole ai fatti, l’ha applicata direttamente annettendosi dapprima la Crimea e poi invadendo l‘Ucraina. E poiché tra „forti“ intenzionati a dividersi di buon accordo le prede, ci si intende, Putin nel giorno in cui Vance è atterrato in Groenlandia si è curato di sottolineare le “radici storiche di lunga data” che legherebbero gli Stati Uniti alla Groenlandia. Come scrive Andrew Roth sul Guardian il leader russo, rifiutando generazioni intere di norme internazionali che vietano di prendere il territorio con la forza o con l’estorsione, ha concluso che „non sono affari nostri quello che fanno laggiù“ (in Groenlandia) confidando evidentemente che lo stesso atteggiamento l‘abbia Trump nei confronti dell’Ucraina. Le probabilità che lo scambio (di disinteresse) tra le due potenze riesca appaiono buone.
I conculcati diritti dei migranti
Il problema dei nostri giorni non è però solo che Trump rivendichi per gli USA Stati sulla base della stessa legge della forza di Putin e nemmeno che un soggetto come Trump sia democraticamente divenuto il presidente degli Stati Uniti e l’uomo più ricco del mondo sia il suo burattino o burattinaio. Il dramma dell’attualità è che la legge del diritto venga progressivamente erosa e sgretolata da azioni e pratiche ad essa contrarie e la legge della forza stia divenendo l’unica riconosciuta a livello sociale e politico, sia nazionale che internazionale. Non solo negli Stati autoritari o autocratici ma anche in quelli definiti o definitisi democratici. La progressiva riduzione dei diritti dei migranti in tutta Europa (dalla Polonia nella quale una legge introduce restrizioni al diritto di richiedere asilo per coloro che attraversano illegalmente il confine, in particolare dalla Bielorussia, alla Svizzera in cui è stata avanzata la proposta di somministrare farmaci sedativi ai richiedenti asilo che oppongono resistenza al momento del rimpatrio, all‘ Italia in cui i naufragi dei migranti lasciano da Cutro in poi impassibili)
Superare il senso di impotenza: la psicoanalisi come mappa
Come scrive Mauro Magatti su Avvenire nell’editoriale odierno Cosa serve per essere democrazie all’altezza, le difficoltà che stiamo attraversando non derivano solo da pressioni esterne, come l’aggressività crescente delle autocrazie, ma anche e soprattutto da una crisi interna delle democrazie stesse: il progressivo svuotamento del loro significato simbolico, la perdita di fiducia nelle istituzioni, la riduzione della cittadinanza a spettatori impotenti o consumatori delusi.
Secondo Magatti, è necessario rinnovare l’immaginario democratico: non basta correggere gli errori tecnici o rafforzare gli strumenti di governo. Occorre qualcosa di più profondo: riattivare il desiderio collettivo di democrazia, come spazio vivo di parola, partecipazione, conflitto e responsabilità. Un progetto che va oltre la sola razionalità politica e tocca corde affettive, simboliche, perfino inconsce. Forse anche la psicoanalisi può offrire qualche strumento
Il trauma collettivo e l’elaborazione mancata
Gli ultimi anni ci hanno lasciati esposti a un accumulo di traumi collettivi: dalla pandemia alle guerre in corso, dalla crisi climatica alla precarietà dilagante. Ma questi eventi non sono stati né pensati né elaborati a livello condiviso. Sono rimasti come frammenti grezzi, elementi beta nel senso bioniano, impossibili da digerire. Senza un contenitore simbolico collettivo capace di dare forma e significato al dolore, la frustrazione si trasforma facilmente in rabbia, la rabbia in disillusione, e la disillusione in adesione a modelli autoritari che promettono protezione e semplificazione.
Il bisogno di autorità e la regressione
In tempi di incertezza, si riattiva in modo potente il bisogno infantile di protezione assoluta. È una dinamica arcaica, che ci porta a regredire verso modelli relazionali basati sulla dipendenza, sulla delega incondizionata, sul bisogno di “padri forti”. Come ha osservato Erich Fromm, la fuga dalla libertà è spesso una fuga dall’angoscia: dalla fatica del pensiero, della responsabilità, del confronto con il limite. Le democrazie, che chiedono impegno e complessità, appaiono allora come insufficienti e frustranti. L’autoritarismo invece rassicura, semplifica, comanda.
Il disconoscimento e la negazione
Di fronte a tutto ciò che ci destabilizza — le disuguaglianze, la crisi climatica, i fallimenti sistemici — molte società sembrano rifugiarsi in una forma collettiva di diniego. Non vogliamo vedere, non vogliamo sapere. E nel vuoto lasciato dalla rimozione, prendono piede narrazioni alternative, più semplici, spesso violente, che ci liberano dal peso della complessità. Le autocrazie sanno giocare perfettamente su questo bisogno di “non pensare troppo”: offrono identità nette, capri espiatori pronti, ordini semplici. La legge della forza diventa allora una scorciatoia emotiva, una risposta reattiva e non elaborata.
Ricostruire il legame sociale: desiderio, parola, simbolico
La psicoanalisi suggerisce che solo la parola può trasformare l’angoscia in pensiero, e solo un legame sociale fondato sul simbolico può contenere la pulsione distruttiva. Quando il simbolico si indebolisce, ritorna il reale: crudo, traumatico, ingestibile. Il reale della violenza, dell’irrappresentabile, dell’urlo. È in questo vuoto che prosperano i populismi, i fondamentalismi, le forme moderne della legge della forza.
Ma se la democrazia vuole salvarsi, deve ritrovare le parole per nominare il reale. Deve tornare a essere lo spazio dove la ferita non viene negata, ma ascoltata. Dove la sofferenza può essere condivisa, raccontata, pensata insieme. È solo lì che può riattivarsi il desiderio collettivo, come forza generativa, come spinta a immaginare un altro modo di vivere insieme. Non siamo solo esseri di bisogno: siamo anche esseri di desiderio, di sogno, di etica. La politica, se vuole essere vitale, deve tornare a dialogare con questa dimensione profonda.
I social come nuovi contenitori? Un’ipotesi paradossale
Solo pochi anni fa avevo ipotizzato che i social network potessero funzionare come una sorta di “gruppo Balint globale”: uno spazio dove portare le esperienze vissute, le contraddizioni, le angosce, e farne oggetto di elaborazione collettiva. Oggi sembra un paradosso, vista la deriva narcisistica e polarizzante dei social. Ma quali altri strumenti allora possono ancora funzionare come contenitori simbolici, come luoghi di transito tra il privato e il pubblico, tra il vissuto individuale e il pensiero condiviso?
La democrazia come spazio del desiderio
Tornando a Tucidide, potremmo dire che la legge della forza è davvero antica quanto il mondo. Ma non è l’unica legge. È solo quella che affiora quando si spegne ogni altra lingua, ogni altra forma di relazione. Il compito della democrazia, oggi, è ricostruire quel linguaggio comune, fatto di parole e non di minacce, di simboli e non di comandi, di cura e non di dominio, in cui la vulnerabilità non è debolezza, ma condizione per l’incontro. E dove il desiderio, finalmente, può riprendere a parlare.