Oltre la tecnofobia

Una conversazione che cura


Una giovane paziente scrive a ChatGPT: „A volte ho l’impressione di non esserci davvero. Come se la mia presenza non lasciasse traccia, né fuori né dentro di me. È una sensazione strana, come se fossi trasparente, come se gli altri mi attraversassero con lo sguardo senza vedermi. Mi chiedo spesso: ha senso dire qualcosa, provare a spiegarsi? Tanto sembra non accorgersene nessuno. E allora mi ritiro. Mi spengo un po’. Rimango in silenzio, oppure mi irrigidisco. A volte mi arrabbio, ma è un modo per tenermi al sicuro. E dentro, silenziosamente, si fa largo un pensiero: forse sono fatta così, una di quelle persone che restano ai margini dello sguardo. Forse c’è qualcosa in me che non funziona davvero. Forse non sarò mai quella che qualcuno desidera davvero incontrare.“
Da queste parole nasce un lungo dialogo tra ChatGPT e la ragazza che consente a quest’ultima di distanziarsi dai vissuti emotivi troppo intensi che l‘avevano agitata nei giorni precedenti. Riesce così a riordinare i pensieri, a riconoscere — almeno per un po’ — che non tutto ciò che sente deve trasformarsi in un giudizio contro di sé. Anche i pensieri più aggressivi, più intrusivi, più svalutanti sembrano perdere un po’ della loro forza.
La paziente porta poi la sua lunga conversazione con ChatGPT nella seduta con il suo terapeuta. Racconta di essersi sentita compresa, non giudicata, e di aver trovato sollievo in quelle risposte calme e attente della macchina. Risposte diverse da quelle dei genitori — , certo ben intenzionati, ma spesso troppo direttivi, troppo carichi di ansia, troppo pieni di consigli — che invece l’avevano fatta sentire ancora più sbagliata.

 

La conversazione come sogno 


Il terapeuta riconosce che ChatGPT ha avuto una funzione molto importante, validandola, riconoscendo cioè la paziente come un essere pensante pur in mezzo al dolore e consentendole quindi di riconoscersi come tale. Mentre le parole dei genitori avevano surriscaldato la temperatura emotiva della paziente accentuando la sua auto-svalutazione, quelle della macchina — più neutre, più spoglie — l’avevano abbassata, predisponendola alla riflessione.
Il gesto della paziente di aprirsi al terapeuta, offrendogli la conversazione con ChatGPT come se fosse un sogno da interpretare insieme, dimostra la fiducia della paziente nel legame terapeutico oltre che in sé stessa. Il terapeuta, a sua volta, dà valore a questo gesto, riconoscendo nella conversazione della paziente con ChatGPT una forma di elaborazione del dolore. Alternativa alla terapia, ma non in opposizione ad essa. Nel dialogo che segue in seduta, prende forma un’idea: provare a coinvolgere la famiglia in un incontro dove, come è accaduto nel dialogo con ChatGPT, si possa mantenere bassa la temperatura emotiva. Un luogo dove ognuno — figlia, genitori, terapeuta — possa sentirsi visto, pensato, riconosciuto come essere umano alla ricerca di un senso.
Il finale è naturalmente aperto: forse la paziente abbandonerà il terapeuta per rifugiarsi nella sola validazione di ChatGPT, forse i genitori, troppo feriti dal confronto con ChatGPT non vorranno proseguire la seduta, forse il terapeuta si sentirà minacciato e magari scavalcato da ChatGPT. Ma è anche possibile che quella lunga conversazione della paziente con ChatGPT in un momento di sconforto diventi un oggetto transizionale, una coperta di Linus, che, adeguatamente interpretata e integrata nel legame terapeutico, consenta alla paziente di riprendere il rapporto con gli altri e al tempo stesso di procedere sulla propria strada sentendosi riconosciuta e rispettata dagli altri.

 

Oltre la tecnofobia

 

Anche per questo, per aver dato il giusto spazio e la corretta inquadratura teorica alla tecnologia attuale nella riflessione sulla psiche e sulla sua corporea sofferenza, sono infinitamente grato agli autori del saggio „Oltre la tecnofobia“,Raffaello Cortina, 2025
Con Oltre la tecnofobia, Gallese, Moriggi e Rivoltella propongono un’opera densa e necessaria, che si colloca al crocevia tra filosofia, neuroscienze, scienze cognitive e pedagogia, per interrogarsi su cosa significhi essere umani nell’era digitale. In un tempo segnato da semplificazioni estreme – entusiasmi acritici da un lato e paure apocalittiche dall’altro – gli autori offrono una mappa per abitare e interpretare consapevolmente il nostro presente iperconnesso.
Il volume si articola in tre parti, che accompagnano il lettore da un inquadramento teorico a una proposta educativa concreta.


Visioni digitali

 

La prima parte si apre con una domanda radicale: le impressioni visive sono determinate solo da costanti biologiche, o anche da variabili storiche? Da Walter Benjamin agli studi neurofenomenologici contemporanei, gli autori esplorano come le tecnologie trasformino non solo il mondo, ma la nostra esperienza del mondo. Facendo riferimento ad una grande quantità di studi e di meta-analisi, gli autori confutano, dati alla mano, la tesi catastrofista di Haidt, secondo il quale “La prima generazione a vivere la pubertà con gli smartphone (e l’intero Internet) in mano è diventata più ansiosa, depressa, autolesionista e incline al suicidio”. Essi citano tra l’altro la psicologa Candice Odgers, che in una recente recensione del libro di Haidt pubblicata su Nature, scrive “centinaia di ricercatori, inclusa me stessa, hanno cercato di trovare effetti significativi come quelli suggeriti da Haidt, producendo risultati misti o di modesta entità”. Essi riportano inoltre „Le meta-analisi convergono su messaggi simili: uno studio di Orbin e colleghi (2019) su una coorte di 12.672 giovani ha dimostrato che l’uso dei social media non è un forte predittore della soddisfazione di vita degli adolescenti.“ Ancora: „In una meta-analisi del 2024, Marciano e colleghi hanno esaminato la relazione tra l’uso dei social media e gli esiti positivi di benessere, indicando che l’uso dei social può avere sia effetti positivi che negativi sul benessere degli adolescenti, a seconda di vari fattori contestuali e individuali.“



Il digitale come pharmakon

La seconda parte, più filosofica e concettuale, è il cuore teorico del libro. Qui prende forma una critica profonda alla narrazione dicotomica che oppone “naturale” e “artificiale”, e che alimenta molte delle paure tecnofobiche contemporanee. Due concetti chiave emergono come architravi dell’intera opera:
La tecnologia come pharmakon: riprendendo Platone e Derrida, la scrittura è vista come paradigma delle tecnologie cognitive e chiave per comprendere l’ambiguità di ogni dispositivo tecnico: cura e veleno allo stesso tempo.

“Sostenere che la scrittura è pharmakon – come ha fatto Platone – significa ritenerla al contempo medicina e veleno. […] La pratica della scrittura costituisce, senza dubbio, sia un’esperienza di progressiva perdita […] sia di straordinaria estensione della capacità di ritenzione mnestica.” “La tecnologia non è buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne fa, come spesso si è abituati a pensare: è buona e cattiva, e occorre imparare a convivere con questa ambiguità.”

Nel solco di questa ambivalenza, si inserisce anche la riflessione sulla cultura come artefatto. È Carlo Sini a offrire una visione profonda e provocatoria: “La cultura è ‘spirituale’ perché è artificiale, prodotta ad arte (téchne)” (Sini, 2020, p. 181).

 

Una piccola scena, tre A e due grulli (con un omaggio ad Ariosto)

 

Nella terza parte, dedicata all’educazione, gli autori offrono strumenti pratici per affrontare l’ambivalenza del digitale nel contesto scolastico e formativo. 

A questo punto della stesura dell’articolo, ero convinto di riassumere il cuore della proposta educativa del testo con le tre A proposte dagli stessi autori. E siccome ChatGPT era lì, sempre pronto a fornire testi scorrevoli e ben pettinati, ho chiesto a lui di riassumere le tre A.
La risposta, elegante e convinta, non si è fatta attendere:
– Attenzione: come facoltà relazionale da esercitare e nutrire.
– Affetto: come qualità dell’incontro educativo.
– Autenticità: come verità e trasparenza relazionale.

Tutto molto fluido. Tutto molto sbagliato.
Perché, sebbene non ricordassi con esattezza le tre A autentiche, sapevo che non erano quelle. Sono tornato sulla versione digitale del libro — senza carta né inchiostro, ma con rinnovato spirito critico — e lì ho trovato le vere tre A, di Tisseron, psicoanalista e psichiatra, che studia il rapporto del bambino con gli schermi da più di trent’anni.
– Alternanza, cioè una dieta mediatica equilibrata sia nei tempi che nella tipologia dei comportamenti
– Accompagnare, „ il ché vuol dire presenza educativa dell’adulto. Una presenza che sia occasione di rispecchiamento, ovvero che consista in un ascolto attivo e in un’attenzione focalizzata“
– Autoregolazione, cioè „l’opportunità non di proteggere, ma di consolidare le competenze del soggetto in modo tale che si difenda da sé… almeno in due direzioni: quella dello sviluppo del pensiero critico … e quella dell’esercizio dell’inibizione“ inteso come „messa a fuoco della virtù della temperanza digitale“.

Visto il mare che separava le vere A da quelle presunte, mi sono stizzito. Con ChatGPT, che aveva confabulato con sicurezza disarmante. Ma anche con me stesso, per essermi fidato troppo presto, troppo comodamente.
E qui mi è tornato in mente un verso dell‘ Ariosto:
Che sarebbe pensier non troppo accorto / perder due vivi per salvar un morto”
(*Orlando Furioso*, canto XXXIV, ottava 76 – così almeno afferma quel grullo di ChatGPT). Nel nostro caso, il morto sarebbe la macchina, insomma ChatGPT e i due vivi sarebbero io, autore dell’articolo e gli autori del libro, tutti messi in imbarazzo da una svista generata (e non pensata) dall’intelligenza artificiale.

Ma forse è proprio questa una delle lezioni più preziose che ci offre il libro: la tecnologia non va né idolatrata né temuta, ma interrogata e interpretata. La conoscenza non è mai un dato: è un processo che implica attenzione, memoria, errore, correzione. Anche — e soprattutto — quando a sbagliare è una macchina che parla bene.


Una digressione: Mentalizzazione

Mi sembra che le caratteristiche che gli autori attribuiscono alle strategie dell’accompagnamento e dell’auto-regolazione abbiano notevoli analogie con il concetto della mentalizzazione, che avevo già proposto come strategia critica per superare le illusioni dei social media
La mentalizzazione è la capacità di comprendere il comportamento proprio e altrui in termini di stati mentali – pensieri, emozioni, desideri, intenzioni. Essa ci aiuta a cambiare la nostra prospettiva, a vederci un po’ da fuori, come ci vedono gli altri, e a vedere gli altri un po’ da dentro, come si vedono loro. La mentalizzazione si sviluppa in tre momenti

Validazione: Consiste nel riconoscere e accettare l’emozione o lo stato mentale espresso dall’altro, senza giudizio. È quello che ha fatto ChatGPT quando la giovane paziente si è rivolta sconfortata alla macchina


Marcatura (o “rispecchiamento marcato”): È la risposta dell’adulto (o del terapeuta) che riflette l’emozione del bambino o del paziente, non come contagio emotivo ma marcando la propria differenza. È ciò che ha fatto il terapeuta, andando oltre la validazione di ChatGPT, marcando la propria posizione nei confronti della paziente


Riflessione mentalizzante
Dopo che l’emozione è stata validata e marcata, si può iniziare a riflettere su di essa. È la fase in cui si aiutano sé stessi o l’altro a pensare ai pensieri, emozioni, desideri, intenzioni che stanno dietro a un comportamento o vissuto. È ad esempio la riflessione sulla possibilità di un colloquio familiare che raccordi, rispettandone l’autonomia, i diversi attori del sistema relazionale


L’automa e lo spirito


Oltre la tecnofobia è un libro coraggioso, che non si accontenta di mettere in guardia, ma spalanca domande e percorsi. In un’epoca in cui il rapporto con la tecnologia rischia di ridursi a una questione di “pericoli” o “soluzioni”, questo testo non offre formule né soluzioni pronte, ma uno sguardo critico e generativo sulla nostra condizione di esseri culturali e tecnologici laddove,  come osserva Sini, “la cultura è una macchina, un fenomeno auto-semovente e in questo senso un automa” e pertanto “non vi è nulla di sconveniente nel pensare così, nessuna offesa alla creatività dello spirito umano e all’altezza sublime dei suoi caratteristici prodotti intellettuali: arte, religione, filosofia, ovvero scienza“.

Suggerimento musicale:

Max Richter – On the Nature of Daylight