Il piacere di distruggere

Fantasie fasciste, fiducia epistemica e democrazia senza futuro.

Donald Trump aveva promesso di scardinare la democrazia liberale. Non è stato eletto malgrado questa promessa, ma in virtù di essa. E sempre grazie a questa è stato pure rieletto. 
Nel loro libro precedente, Libertà ferita, i sociologi Carolin Amlinger e Oliver Nachtwey avevano mostrato come libertarismo e autoritarismo non siano poli opposti, ma possano fondersi in una configurazione politica nuova e instabile. A distanza di pochi anni, la realtà ha confermato la loro diagnosi con forza.

In Piacere di distruggere. Elementi di fascismo democratico, (Zerstörungslust. Elemente des demokratischen Faschismus), uscito lo scorso ottobre in Germania, i due sociologi spostano ora lo sguardo: dai leader ai soggetti, dalle ideologie alle disposizioni affettive, dai programmi politici alle biografie segnate da blocchi, perdite e disinvestimento dal futuro. I loro protagonisti sono gli elettori e i follower di Trump, Musk, dell’AfD: figure diverse, accomunate però da una medesima esperienza di fondo, quella di un futuro che non funziona più come promessa.

Il riferimento alla Retrotopia di Zygmunt Bauman è quasi inevitabile. Quando il futuro smette di apparire praticabile, la politica tende a voltarsi all’indietro. Ma in Desiderio di distruzione accade qualcosa di ulteriore: non si rimpiange soltanto il passato, si sviluppa un desiderio di distruzione. Distruggere diventa una forma di azione, forse l’unica che sembri ancora capace di produrre un sentimento di efficacia.

Fascismo storico e fascismo democratico: una distinzione necessaria


Amlinger e Nachtwey insistono su un punto decisivo: non siamo di fronte a un ritorno del fascismo storico. Il concetto che propongono è quello di fascismo democratico.
Con questa espressione indicano una disposizione politica e affettiva che nasce all’interno delle democrazie contemporanee: una miscela di risentimento, ribellione regressiva e fantasie autoritarie che utilizza le istituzioni democratiche mentre ne erode progressivamente la sostanza.
Non si tratta di un regime, ma di un immaginario; non di una dittatura conclamata, ma di una disponibilità diffusa ad accettare soluzioni illiberali in nome della sovranità popolare.
Là dove il fascismo storico si opponeva apertamente alla democrazia, il fascismo democratico prende di mira la democrazia liberale, accusata di essere vuota, ipocrita, in preda ad élite morali, amministrative e mediatiche. Le elezioni non vengono negate, ma private della loro funzione pluralistica; i diritti non vengono aboliti, ma selettivamente delegittimati.

Policrisi, fine del progresso e immaginario a somma zero

Il terreno su cui questa disposizione attecchisce è ciò che gli autori definiscono policrisi: crisi ecologica, economica, geopolitica, sanitaria e tecnologica che si sovrappongono e si rafforzano reciprocamente. In questo paesaggio di policrisi – caratterizzato da infrastrutture che si logorano, servizi che si assottigliano, spazi pubblici che chiudono – la fine della crescita non è più un grafico astratto, ma un’esperienza quotidiana di riduzione, attesa e rinuncia. Proprio qui prende forma un immaginario a somma zero, in cui ogni conquista altrui viene percepita come una sottrazione a sé, e la distruzione diviene, paradossalmente,  l’ultima forma possibile di azione. In un passaggio centrale del libro gli autori osservano che:
Se il metabolismo tra società e natura deve continuare a funzionare in qualche modo, il mondo dovrà fare i conti con meno crescita. Molti hanno rinunciato a credere in un futuro migliore. Sostenibilità, maggiore autodeterminazione, un approfondimento o almeno un rinnovamento della democrazia appaiono loro illusioni.

Queste righe non descrivono soltanto una condizione materiale, ma una trasformazione dell’immaginario collettivo temporale. La catastrofe non è più qualcosa che incombe: è già incorporata nell’esperienza quotidiana. Ponti che crollano, spazi pubblici che chiudono, servizi che si riducono: si diffonde l’idea che non ci sia più abbastanza per tutti.

Neo-Liberalismo senza alternative e produzione del populismo

Un nodo teorico centrale del libro riguarda il rapporto tra neo-liberalismo e populismo. Quando la democrazia liberale si presenta come priva di alternative, ogni critica viene facilmente delegittimata come populista e antidemocratica.
Ma – come ricordano gli autori riprendendo Philipp Manow – il populismo è anche un prodotto di una politica compressa dal liberalismo stesso.
Il riferimento agli anni Trenta e alla Repubblica di Weimar viene fatto dagli autori con cautela. Non si tratta di stabilire equivalenze storiche, ma di riconoscere analogie strutturali. La politica di austerità del cancelliere Heinrich Brüning non causò automaticamente l’ascesa di Hitler, ma contribuì a svuotare la legittimità democratica, restringendo lo spazio della decisione politica.
Analogamente, dopo il 2008, mentre risorse ingenti venivano mobilitate per salvare il sistema finanziario, ampi strati della popolazione europea sperimentavano una lunga stagione di rinunce, precarizzazione e disillusione. In entrambi i casi, ciò che viene eroso è la fiducia nel fatto che la democrazia sia in grado di proteggere e orientare.

Erich Fromm: vita bloccata e distruttività

Il riferimento teorico più profondo del libro resta Erich Fromm. In Fuga dalla libertà, Fromm aveva descritto il paradosso della modernità: soggetti formalmente liberi, ma interiormente paralizzati. La distruttività, per Fromm, non è un istinto originario, ma il risultato di una vita non vissuta.

Amlinger e Nachtwey riprendono questa intuizione per descrivere, con uno stile efficace anche se caratterizzato da una certa ridondanza, ciò che chiamano appunto piacere di distruzione: una pulsione che nasce dall’esperienza di una vita bloccata, priva di sviluppo, riconoscimento e futuro immaginabile. In questo contesto si delinea una variante contemporanea del carattere autoritario: soggetti che si percepiscono come vittime di uno Stato paternalistico, di esperti e di élite culturali, e che reagiscono con fantasie di punizione e annientamento.


Tre figure del desiderio di distruzione e tre modalità di perdita della fiducia epistemica


Il materiale empirico su cui si fonda Desiderio di distruzione – un sondaggio rappresentativo su circa 2600 persone e 41 interviste qualitative in profondità in Germania – consente di andare oltre le etichette politiche e di cogliere ciò che accomuna, a un livello più profondo, soggetti molto diversi tra loro: una erosione della fiducia epistemica, cioè della disponibilità a considerare il mondo sociale come una fonte attendibile di conoscenza, orientamento e senso.
Ciò che emerge con chiarezza è che questa fiducia non viene meno in modo uniforme, ma secondo modalità differenti, che corrispondono alle tre figure dí distruttori individuate dagli autori.

I rinnovatori: fiducia selettiva e regressiva
I rinnovatori non hanno perso del tutto la fiducia epistemica, ma l’hanno ristretta e resa selettiva. Non si fidano più delle istituzioni liberali, degli esperti, dei media, ma continuano a investire fiducia in fonti alternative: leader carismatici, narrazioni identitarie, saperi “contro-egemonici”.
La loro fiducia epistemica non è dissolta, bensì reindirizzata all’indietro: verso un passato idealizzato o verso sistemi di senso semplici, binari, rassicuranti.
In questi soggetti, la distruzione appare come una operazione preliminare: eliminare le istituzioni che producono conoscenza considerata falsa o corrotta per poter ripristinare un ordine ritenuto più autentico. La fiducia non scompare, ma diventa regressiva, incapace di tollerare ambiguità, complessità e pluralità interpretativa.
I distruttori: collasso della fiducia epistemica
Nei distruttori in senso stretto, la perdita della fiducia epistemica è più radicale. Qui non viene meno soltanto la fiducia nelle istituzioni, ma la fiducia nella possibilità stessa di comprensione. Il mondo non appare più interpretabile, né migliorabile; le spiegazioni vengono vissute come razionalizzazioni ipocrite; le promesse come inganni reiterati.
In queste biografie – spesso segnate da perdite, fallimenti, blocchi evolutivi – la fiducia epistemica si è trasformata in cinismo generalizzato. Nulla è credibile, tutto è sospetto, e proprio per questo la distruzione del sistema assume una funzione quasi catartica.
Far crollare tutto diventa l’unico gesto che restituisce un senso di realtà e di efficacia soggettiva.
I libertari autoritari: fiducia epistemica iper-individualizzata
I libertari autoritari mostrano una terza modalità di perdita della fiducia epistemica, forse la più paradossale. Essi non rifiutano la conoscenza in quanto tale, ma rifiutano la conoscenza condivisa.
La fiducia epistemica viene iper-individualizzata: “mi fido solo di me stesso”, della mia esperienza, delle mie intuizioni, o di chi parla “senza filtri”.
Questo atteggiamento produce una forte ostilità verso esperti, scienziati, istituzioni e procedure deliberative, vissute come imposizioni paternalistiche. Tuttavia, quando la complessità diventa ingestibile, questi stessi soggetti si mostrano pronti ad affidarsi a figure autoritarie che promettono decisioni rapide e nette.
La fiducia epistemica, negata a livello istituzionale, viene proiettata sul leader, investito come fonte di verità e chiarezza.
In questo senso, libertarismo e autoritarismo non si contraddicono: entrambi sono espressione di una incapacità di sostenere una fiducia epistemica mediata, che richiede tempo, dialogo e accettazione dell’incertezza.

Una perdita comune, esiti differenti

Ciò che accomuna queste tre figure non è un’ideologia specifica, ma una frattura nel rapporto fiduciario con il mondo. La differenza sta nel modo in cui questa frattura viene gestita: attraverso una regressione selettiva, un collasso generalizzato o una radicale privatizzazione della fiducia.

In tutti i casi, il desiderio di distruzione appare come una risposta alla perdita di un mondo epistemicamente affidabile. Non si distrugge soltanto ciò che è odiato, ma ciò che non riesce più a parlare in modo credibile.


Democrazia, mentalizzazione e il lavoro sul limite


Il saggio mostra con chiarezza – aggiungo io – che ciò che oggi chiamiamo crisi della democrazia non è soltanto una crisi istituzionale o normativa, ma una crisi del legame epistemico tra soggetti, mondo e istituzioni. Quando il futuro non è più pensabile, quando l’esperienza quotidiana è quella del blocco e della perdita, la fiducia nel fatto che la realtà possa essere compresa, condivisa e trasformata si erode. È in questo vuoto che il desiderio di distruzione acquista forza.
In questa prospettiva, la fiducia epistemica non è un dettaglio psicologico, ma una condizione politica di base. Senza la disponibilità a considerare l’altro – e le istituzioni – come fonti potenzialmente attendibili di senso, la democrazia perde il suo presupposto fondamentale: la possibilità di un conflitto che resti pensabile. Quando la fiducia epistemica si spezza, il conflitto non si articola più in divergenze, ma in fantasie di annientamento.
La mentalizzazione, allora, – chioso io – non può essere intesa come una soluzione tecnica o come una pedagogia della buona cittadinanza. Non promette consenso, né armonia. Può però funzionare come orizzonte regolativo minimo di una politica che rinuncia sia alla scorciatoia moralistica sia a quella repressiva. Mentalizzare, in questo senso, significa tenere aperta la domanda sul senso delle posizioni altrui, anche quando risultano sgradevoli o minacciose; significa riconoscere che dietro molte derive distruttive vi è una storia di fiducia infranta, non semplicemente ignoranza o malafede.
Ciò implica anche accettare un limite scomodo: i valori democratici – per quanto irrinunciabili – non possono essere interiorizzati per decreto. Quando vengono imposti in forme pre-mentalizzanti, producono facilmente vissuti di infantilizzazione e di imposizione morale. E questi vissuti, come mostra il materiale empirico del libro, non indeboliscono il desiderio di distruzione: lo rafforzano.

La posta in gioco, allora, non è scegliere tra fermezza e dialogo, tra norme e comprensione. È riconoscere che una democrazia che rinuncia alla cura del legame epistemico rischia di sopravvivere solo formalmente, mentre al suo interno proliferano fantasie di demolizione.
In questo senso, la democrazia appare sempre più come un compito clinico-politico: non nel senso di una terapia collettiva, ma come lavoro continuo sul limite, sull’incertezza, sulla possibilità di pensare ciò che altrimenti verrebbe agito.
Desiderio di distruzione non offre ricette, e fa bene a non farlo. Ci ricorda però che, senza una minima ricostruzione della fiducia epistemica – individuale e collettiva – la politica rischia di ridursi a gestione tecnica o a guerra simbolica. E che, quando il mondo smette di essere un interlocutore credibile, distruggerlo può apparire, a molti, come l’unica forma rimasta di esperienza e di presenza.

Il libro

Piacere di distruggere. Elementi di fascismo democratico,
Zerstörungslust. Elemente des demokratischen Faschismus
di Carolin Amlinger e Oliver Nachtwey


Immagine: Francisco Goya, Saturno che divora suo figlio