“Le donne si sono liberate dalle catene nei tempi moderni. Noi uomini le abbiamo tenute alla catena per secoli, ora si sono prese un’ubriacatura di libertà. Guarda cosa è successo da noi, è crollato il muro dell’ideologia ed è andato perso anche il loro pudore”. È la considerazione di un boss albanese a colloquio con un altro boss del traffico della prostituzione nel romanzo Sole bruciato della scrittrice albanese Elvira Dones, – un romanzo risalente ancora al 2000 di cui sono venuto a conoscenza solo ora perché è stato recentemente tradotto in tedesco. Sono parole messe in bocca a un boss che non esita a far rapire, picchiare, violentare e uccidere donne, poco più che adolescenti, portate in Italia sul mercato della prostituzione al tempo della dissoluzione dello stato albanese dopo decenni di feroce dittatura. Mi sono chiesto quanti maschi italiani, dall’intatta fedina penale e dai modi apparentemente irreprensibili, le condividerebbero, magari dopo qualche calice, in una serata di/per soli uomini.
Il romanzo della Dones, apprezzata scrittrice ora residente in Ticino, è “terribile” per la descrizione cruda delle scene di brutale e perfida violenza sulle donne. Un pugno nello stomaco che colpisce fin dalle prime pagine il lettore, che ne farebbe probabilmente volentieri a meno, sconcertato dalla violenza di esseri umani di sesso maschile che si fatica a chiamare uomini. Le donne, spesso consegnate ai loro aguzzini da conoscenti, familiari o addirittura fidanzati, vengono brutalmente stuprate in un rituale di violenza collettiva, subito avviate alla prostituzione sulla strada o in luoghi riservati a seconda della loro “quotazione di mercato”, tenute segregate, violentate a piacimento dai loro boss, picchiate talvolta a morte, minacciate e punite con la morte di loro familiari qualora non rispettino le regole. L’ordito del romanzo è però costituito dai ricordi poetici e vibranti di quelle stesse donne, dalle loro tante paure e poche speranze, dalla loro resilienza – sì la loro è resilienza – e dalla loro solidarietà non sempre facile e possibile con le altre donne di “laggiù” (l’Albania), con cui si sono trovate a condividere “quassù” (in Italia) un destino che le segnerà per sempre. Nelle telefonate alle madri e alle sorelle, nei sogni e nei ricordi si delinea poco a poco la vita di ognuna di loro, quel poco di vita misera e incerta che è stato loro concesso di vivere prima che il sogno dell’emigrazione nel paese del lusso si trasformasse in incubo. Leila racconta: “ Stalla! sono una stalla ripetevo ad alta voce la prima volta che, bambina, riuscii a pronunciare una frase. I genitori scoppiarono in una risata. La mamma mi stringeva tra le braccia profumate di sapone. Più tardi, ormai cresciuta, papà mi ripeteva: “Leila, stella del papà, abbi cura di te”. Cercherò, papà. Faccio la stallona nella stalla con questi bestioni sopra e sotto il mio corpo, ripetendo a me stessa che sono una stella”. Il suo boss vede la cosa da un’angolatura un po’ diversa. “ Il nostro è un lavoro non solo utile e lucroso – afferma, convinto – ma necessario perché rende un servizio alla società. Il mercato ha bisogno, ha sempre avuto bisogno della carne della donna e noi, seguendo l’esempio che ci offre la storia, ci aggiungiamo alla lunga catena dei servitori umili e scrupolosi” e aggiunge che “in questo mestiere da sempre gli uomini comandano e le donne ubbidiscono”.
Sembrano convinzioni provenienti dalla preistoria, eppure sono le stesse che muovono ancora il traffico della prostituzione, che ora non arriverà forse più dall’Albania ma da qualche altro paese ancora più povero e disperato. Non solo, temo che queste stesse convinzioni siano ancora archiviate nel cervello di noi maschi, italiani. È difficile altrimenti spiegarsi come sia possibile che uno di noi ogni tre giorni ammazzi una donna. Per fortuna è cambiato e sta cambiando qualcosa, anche se non proprio per merito di noi maschi, che in Italia nel 2021! facciamo ancora fatica ad accettare di declinare i nomi delle professioni al femminile e ad accogliere le “raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” formulate da Alma Sabatini nel 1987! (via @ManuelaPerrone). Al di là delle doverose leggi per la parità e la tutela delle donne in pericolo, delle quote rose, e del necessario finanziamento delle iniziative ed istituzioni per legge stabilite, credo che il cambiamento debba passare per i nostri cervelli. È infatti scientificamente dimostrato che il sessismo aggressivo, ostile è associato a una ridotta attivazione delle aree cerebrali responsabili dei processi di mentalizzazione e dunque della capacità di vedere gli altri come soggetti indipendenti e non solo come oggetti dei nostri impulsi: “more hostile attitudes predict less spontaneous activation of the network reliably associated with mentalizing. No such correlation emerged with benevolent sexism.”Intendiamoci, queste constatazioni neurobiologiche e neuro radiologiche non sono una scusante per il sessismo ma un aiuto a capire come agisce per poterlo combattere. Dobbiamo mettere in discussione ogni giorno uno dei mille comportamenti, atteggiamenti, regole, abitudini che diamo per scontati e che sono invece solo il risultato di un ordine maschile costituito nei millenni e memorizzato nei nostri cervelli. I nostri circuiti neuronali ormai impigriti devono essere sottoposti a revisione, confrontati con le nuove esigenze, le nuove situazioni e i nuovi valori, nuove connessioni devono prendere il posto delle vecchie. Come per tutti i cambiamenti profondi, è un lavoro lungo e faticoso, che ciascuno, pur se supportato dalla collettività, deve compiere personalmente, accettando di cambiare almeno un piccolo pezzetto del suo cervello se vuole lasciare ai suoi figli e alle sue figlie un mondo un po’ più giusto di quello attuale in cui è stato possibile che le speranze di Leila siano state “rubate e sepolte” e il suo “corpo fatto a fette come un melone”.
Immagine tratta da: “From Agents to Objects: sexist attitudes and neural responses to sexualized targets
Suggerimento musicale: Björk, Tabula rasa a cura di @marcoganassin