Che effetto avrà sulla nostra salute, fisica e mentale, la città del futuro? Mi ponevo la domanda propenso all’ottimismo mentre leggevo lo splendido articolo di @GranataElena sui placemaker cui la Professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano ha anche dedicato il suo ultimo saggio, dall’omonimo titolo. Il placemaker – scrive Elena Granata – è chi “ha la capacità di trasformare un’idea in un progetto, di pensare cose impossibili e soprattutto di farle accadere. Reintegra la natura in contesti urbani, riforesta e ripristina ecosistemi, progetta soluzioni ispirate alla natura per contrastare i cambiamenti climatici, ricuce periferie sconnesse, reinventa borghi abbandonati. […] Non agisce solo sugli spazi fisici ma anche sui comportamenti umani e sulla natura, sui sentimenti e gli stili di vita”.
Di simili placemaker c’è quanto mai bisogno anche perché negli ultimi anni si sono verificati due eventi importanti capaci di influenzare in modo sostanziale la società umana. In primo luogo, per la prima volta nella loro esistenza gli esseri umani vivono in contesti prevalentemente urbani. Più del 50% della popolazione mondiale vive ora nelle città, con un aumento previsto fino al 70% nel 2050. In secondo luogo, mentre il peso della disabilità e della mortalità della maggior parte delle malattie è diminuito negli ultimi tre decenni, il peso dei disturbi mentali, compresi i disturbi mentali comuni (CMD) come i disturbi depressivi, d’ansia e da uso di sostanze, è aumentato. Come avevo già scritto i disturbi mentali, sono diventati infatti tra le principali cause del carico globale delle malattie, il cosiddetto GBD, Global Burden of Diseases, che è una misura per calcolare l‘impatto che le principali malattie hanno sulle persone a livello globale. Il Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study (GBD) 2019 aveva già mostrato che i due disturbi mentali più disabilitanti erano i disturbi depressivi e quelli d’ansia, entrambi classificati tra le 25 principali cause di carico malattie in tutto il mondo nel 2019.
Uno studio recentemente pubblicato su Lancet, di cui avevo recentemente riferito , stima inoltre che la pandemia abbia comportato un aumento significativo della prevalenza sia del disturbo depressivo (+27·6%) che dei disturbi d’ansia (+25·6%).
Molti ricercatori nella storia moderna si erano già chiesti se la vita in un ambiente urbano e il rischio di disturbi mentali siano correlati. Ora uno studio appena pubblicato su Lancet Psychiatry ha fatto un’analisi ecologica utilizzando i dati sull’urbanistica e sul carico di disturbi mentali comuni, CMD (quali depressione, disturbo d’ansia e disturbo da uso di sostanze) in 191 paesi e ha riscontrato una relazione positiva e non lineare con una maggiore prevalenza di CMD nei paesi più urbanizzati, in particolare per i disturbi d’ansia. La prevalenza dei disturbi mentali comuni è maggiore nei paesi in cui più del 50-60% della popolazione vive nelle aree urbane, in particolare per i disturbi d’ansia.
Si tratta naturalmente di studi complessi che devono tener conto di moltissimi elementi a svariati livelli, quali fattori evolutivi, psicologici, sociali (p. es., credenze cognitive e coping) e neurobiologici (risposta allo stress ed epigenetica).
Ad esempio, uno studio di neuroimaging ha mostrato che la vita urbana sarebbe associata ad un aumento dell’attività dell’amigdala a seguito dell’esposizione allo stress sociale. Inoltre, l’esposizione all’inquinamento atmosferico potrebbe essere correlata a interruzioni nello sviluppo della sostanza bianca del cervello nell’infanzia e all’aumento dell’atrofia cerebrale in età avanzata. È stato poi dimostrato che il microbioma intestinale influenza la funzione cerebrale e forse contribuisce alla fisiopatologia dei disturbi mentali. Gli effetti transgenerazionali infine potrebbero indurre cambiamenti nello sviluppo neurologico che alterano la risposta allo stress e la resilienza ai disturbi mentali nella prole, ad esempio attraverso l’uso materno di sostanze o inibitori della ricaptazione della serotonina durante la gravidanza. Per quanto riguarda i fattori protettivi, studi di neuroimaging hanno dimostrato che l’esposizione allo spazio verde può influire positivamente sul recupero dallo stress e sul funzionamento cognitivo e affettivo del cervello.
L’interrelazione tra l’ambiente urbano e i fattori psicologici e neurobiologici non si sviluppa dunque secondo una relazione lineare (cioè dalla città all’individuo), ma circolare poiché la salute mentale degli abitanti della città si ripercuote e influenza l’ambiente urbano e viceversa. Il ché significa che le loro interazioni sono caratterizzate da meccanismi di loop e di feedback che si verificano su scale temporali diverse, dando luogo a una complessa rete di interazioni dinamiche all’interno di due sistemi (città e disturbi mentali) entrambi complessi. La ricerca citata suggerisce in particolare quattro principi per valutare la reciproca interazione tra ambiente urbano e salute mentale
These principles are: (1) the factors and outcomes involved operate as dynamically interacting elements within a complex system, (2) factors are affected by meta- factors such as changes in city size, urbanisation, migration, and stage of economic development, (3) interactions between explanatory factors and CMD symptoms occur over different timescales, and (4) CMD outcomes can affect explanatory factors (feedback loops).
Avremo dunque sempre più bisogno di placemaker e di psichiatri ed epidemiologi che sappiano valutare l’impatto di fattori sociali sulla salute mentale degli individui.
Immagine: Van Gogh Cycle Path di Dan Roosegaarde