La mia vicina di blog Felicia Pelagalli nel suo bel post “Il disagio della società” constata che “il disagio è tra noi” ed “è aumentato” ma, conclude quanto mai realisticamente, “non possiamo immaginare di mandare tutti in psicoterapia. Non possiamo medicalizzare la vita.” (Anche perché, detto per inciso, passato il clamore del bonus psicologico, di facilitare l’accesso alla psicoterapia per tutti/e in modo sistematico non si parla più). Felicia Pelagalli cita l’analisi del sociologo ed economista Mauro Magatti il quale, riferendosi alle minaccia della guerra in Ucraina, succeduta a quella del Covid, scrive “un nuovo shock proietta lunghe ombre sul futuro che ci attende.” Magatti rileva che in questo difficile contesto non abbiamo certo bisogno né di padri sbiaditi, eternamente ragazzini né tanto meno di padri violenti e afferma che “mai come oggi abbiamo bisogno del padre che non abbiamo ancora avuto”… “ un padre, cioè, capace di essere una porta, che inquadra la realtà, che dà una forma alla vita, ma che non dimentica che il suo destino è quello di essere attraversata”. È un’immagine molto bella che si sottrae e ci sottrae a quella tendenza (per usare un termine psichiatrico) passivo aggressiva che è, a mio avviso, una delle caratteristiche della società italiana: l’eterna e irrisolta alternanza tra la rimozione dell’aggressività fino al punto da subire passivamente soprusi e ingiustizie intrinseci alla tradizione (a danno soprattutto di donne e giovani) e lo scoppio impulsivo e incontrollato di un’aggressività feroce e distruttiva nei confronti dell’autorità e delle istituzioni fino al ritorno alla situazione precedente in un inconcludente eterno ritorno in cui sembrano poterci essere solo eroi o colpevoli.
Rinvio alle profonde parole di Magatti per ciò che attiene alle caratteristiche che i nuovi padri dovrebbero presentare. Spronato dalle considerazioni sue e di Felicia Pelagalli, cerco invece di riflettere qui su cosa possiamo fare noi, come fratelli e sorelle, cioè come cittadinə partecipə e solidalə, per prenderci cura del disagio che è appunto tra noi e, possibilmente, attenuarlo, lenirlo. Naturalmente vanno ricercate le cause profonde, strutturali del disagio e rimosse quelle disuguaglianze che ne sono nella maggior parte dei casi alla radice. A questo livello le nostre possibilità d’azione sono ovviamente limitate. Ma cosa possiamo fare concretamente quando percepiamo questo malessere nella vita quotidiana onlife, al bar, in ufficio, sul tram, sui social media? Quando anzi abbiamo la sensazione che il disagio individuale e collettivo venga aumentato proprio dai Mass Media e dai Social Media – che d’altro canto non perdono occasione per incolparsene reciprocamente ?
Perché non utilizzare allora i Social Media come gruppi di auto-aiuto? Gli esempi non mancano e gli studi al riguardo pure. Già da tempo i social media e in particolare TW sono impiegati come rilevatori psico-sociali, nella promozione della salute in generale e in particolare di quella psicologica. L’impiego dei social media è stato positivamente valutato in caso ad es. di disastri ambientali, quali il terremoto di Haiti, per favorire il contatto tra i sopravvissuti ed incrementarne la resilienza.
MHChat propone ad esempio un tema di salute mentale ogni mercoledì su Twitter, stimola la discussione al riguardo e fornisce suggerimenti scientificamente fondati per superare il problema psicologico affrontato o gestirlo meglio. Si licet parva componere magnis, le esperienze di #tmente e più recentemente di #psicodemia su Twitter sono state occasioni riuscite di incontro e discussione di temi psicologici quali i disturbi mentali e la sofferenza psicologica conseguente alla pandemia.
Già in passato avevo proposto di utilizzare Twitter non per una terapia di gruppo ma come uno strumento per elaborare e lenire il malessere sociale legato a specifici eventi traumatici (un terremoto, un’epidemia, una guerra). Si potrebbe infatti immaginare un gruppo digitale in cui, sotto la guida di uno o più moderatorə, specificamente formatə, discutere un tema critico o meglio il rapporto dei partecipantə con quel tema. Tutti i partecipantə potrebbero così esprimere i loro vissuti e le loro emozioni che andrebbero incontro ad un processo di scambio, confronto, discussione, elaborazione emotiva e cognitiva. Ripeto, non si tratterebbe di una terapia ma di un’ occasione, definita da un preciso Setting, in cui elaborare il disagio individuale e collettivo. Sarebbe così possibile fare l’esperienza che chi sta accanto a noi ha problemi spesso analoghi ai nostri, li percepisce e li esprime in forme diverse ma alla fine è possibile comprendersi, condividere pensieri ed opinioni, dividere ansie e preoccupazioni, tristezze e gioie, sentirsi fratelli e sorelle partecipi e solidali che discutono, litigano ma poi si capiscono. In una simile condivisone facciamo certamente esperienza di fragilità ma anche di una straordinaria forza di gruppo, di comunità. D’altro canto già Shakespeare nel Macbeth ci sollecitava: «Date parole al vostro dolore; il dolore che non parla sussurra al cuore troppo gonfio e lo invita a spezzarsi». Le parole, non si stanca di ricordarci Borgna anche nell’ultimo suo saggio L’agonia della psichiatria, hanno “infinite risonanze emozionali ed esistenziali”, sono “il dono di una particella di umanità”. Al tempo stesso questo grande della psichiatria italiana, che ha fatto della tenerezza, della gentilezza e della fragilità la sua cifra, ci ricorda che “non troveremo mai parole che siano di conforto alle persone che stanno male, e che chiedono aiuto, se non sgorgano dal nostro cuore”.
Sui social media assistiamo a uno sconcertante paradosso del nostro linguaggio. In uno dei pochi luoghi in cui abbiamo pressoché completa libertà di parola, sembriamo fuggire impauriti da questa libertà (Fromm) e anziché cercare parole che sgorghino “dal nostro cuore” riprendiamo parole altrui per criticarle o dire ciò che noi riteniamo di non saper dire. Utilizzare i social media come gruppi di discussione, di auto-aiuto vorrebbe proprio dire riscoprire le nostre parole, farne strumento della “cura”, del prendersi cura di noi e degli altri. Perché, come ci ricorda ancora Borgna, “le parole che non fanno male e che sono di aiuto alle persone che vivono nel dolore, non le troveremo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle loro emozioni, e se non sappiamo riviverle dentro di noi”. E Natalia Ginzburg, che cito qui da @SalaLettura, soggiunge, anche dal punto di vista artistico “L’artista non scrive una frase perché è bella, ma perché è vera. E non è un artista chi sacrifica la propria verità per amore di una bella frase o una bella parola.” Non si tratta dunque in un gruppo di riflessione e di auto-aiuto di trovare “belle parole”, né quelle più convincenti per dimostrare la propria tesi ma di riscoprire parole vere per parlare al cuore nostro e altrui, per lenire un disagio accentuato dall’ incomprensione e dal mancato ascolto. Non possiamo immaginare di mandare tutti in psicoterapia, né di andarci tutti. Possiamo però riscoprire le nostre parole, condividerle e con loro le nostre emozioni e possiamo farlo addirittura sui social media in una scommessa di mentalizzazione individuale e collettiva.
Immagine: Otto Dix, guerra e pace