Ognuno di noi conosce una persona “troppo sensibile”. Ovvero che si definisce “troppo buona, altruista” o nella declinazione “scientifica” più attuale “troppo empatica”. Spesso anzi quella persona è una parte di noi, che di volta in volta vezzeggiamo o invece deprechiamo, dicendo che dovremmo andare in terapia per “imparare a diventare egoisti” (ma per quello non basta House of cards?).
Un (relativamente) recente (3.6.2014) studio giapponese pubblicato su Translational Psychiatry ci aiuta a capire meglio il non semplice rapporto tra empatia e Burnout nelle professioni medico-sanitarie, che per l’intrinseca esposizione alla sofferenza altrui sono da tempo sospettate essere a rischio di facile esaurimento emotivo. Pur con le doverose specificazioni e i limiti del concetto di burnout che ho già evidenziato nel precedente articolo, diversi studi sembrano indicare una tendenza sembra più diffusa dei medici, indipendentemente dalla specialità, ad andare incontro al burnout di cui vengono descritti segni anticipatori. In uno studio di valutazione del burnout in medici residenti il 76% presentava sintomi di Burnout, condizione che in tale categoria professionale e in quelle contigue può condurre a errori anche gravi in campo sanitario, se non, come già si diceva, ad altre patologie. Ad oggi tuttavia poco si sa sui meccanismi che conducono al burnout.
La teoria tradizionale, ‘compassion fatigue theory‘ suggerisce infatti che il burnout sia dovuto ad un eccesso di empatia. Un’ interessante ipotesi alternativa ‘emotional dissonance theory’ prospetta invece che il burnout sia piuttosto legato a una ridotta capacità di regolazione emozionale tale da provocare una stressante discrepanza tra emozioni percepite ed emozioni espresse, con la conseguenza poi di un burnout.
Ebbene, lo studio giapponese citato sembra confermare questa seconda ipotesi. La ricerca dell’Universita di Kyoto dimostra infatti che la severità del burnout nelle professioni mediche è spiegata da una ridotta attività delle strutture cerebrali responsabili dell’empatia e che tale ridotta attività cerebrale “empatica” è associata a punteggi più elevati di dissonanza emozionale e di alexitimia (incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni) nonché ad una maggiore predisposizione empatica.
Lo studio
Per verificare quali delle due ipotesi fosse quella corretta con tutte le (importanti) conseguenze del caso, i ricercatori giapponesi hanno analizzato l’attività cerebrale collegata all’empatia misurabile tramite risonanza magnetica funzionale e hanno – per primi – indagato se tale attività (ridotta o aumentata) fosse correlata o meno con la severità del burnout ed altri indici psicologici. Le probande erano 25 infermiere sottoposte a risonanza magnetica cerebrale funzionale (con particolare riguardo alle aree che si attivano nell’empatia) nonché a svariati test psicologici.
Questi ultimi includevano una scala per la valutazione del burnout, Maslach Burnout Inventory (MBI), un questionario di autovalutazione per la misurazione della predisposizione all’empatia (IRI), una scala per la valutazione della dissonanza emozionale, Emotion Work Requirements Scale (EWRS) – valutata come espressione del conflitto tra la propria esperienza emozionale e l’espressione delle emozioni socialmente desiderate – e infine una scala (TAS-20) per la valutazione dell’alexitimia intesa qui – non nella sua accezione più radicale di funzionamento mentale esclusivamente operativo ma – come incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni.
Le infermiere sono state poi sottoposte a risonanza magnetica funzionale durante la quale veniva loro richiesto di osservare brevi video contenenti scene di sofferenza o non sofferenza altrui: vedevano cioè brevi filmati di una mano ferita da un coltello, un martello, un punteruolo o invece strofinata da un spazzola soffice. Con la RMN funzionale è stato possibile valutare il grado di funzionamento delle aree principalmente preposte all’empatia, – che sono soprattutto l’insula anteriore, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia somato-sensoriale, anche se la giunzione temporo-parietale sembra svolgere un ruolo importante in particolare nella capacità di assumere il punto di vista altrui.
Va detto che precedenti studi avevano riscontrato un’attività cerebrale delle suddette strutture responsabili per l’empatia ridotta in medici che guardavano filmati di persone soggette a dolore fisico rispetto a gruppi di controllo che osservavano le stesse scene. Tali risultati erano stati giudicati come espressione di una specie di strategia adattativa per resistere al burnout messa in atto da persone (medici, infermieri, etc) che hanno più frequentemente a che fare con la sofferenza altrui. Si era infatti osservato che tale ridotta attività cerebrale era peraltro associata ad una maggiore capacità/predisposizione empatica degli stessi medici. Precedenti studi avevano già dimostrato che la ridotta attività cerebrale delle strutture preposte all’empatia non è necessariamente correlata con la capacità empatica, anzi.
Although fMRI studies have demonstrated a positive correlation between strength of empathy-related brain activity during the experience of vicarious pain and Interpersonal Reactivity Index (IRI) empathy scores, … a negative correlation has also been shown among individuals with psychopathy; and healthy participants.
Ciò premesso, e mi scuso per la lungaggine di queste tuttavia doverose premesse, i ricercatori giapponesi hanno evidenziato che:
– l’attività cerebrale nelle regioni “empatiche” sopraindicate è correlata negativamente con la severità del burnout, cioè tanto più grave è il burnout, quanto più ridotta è l’attività delle strutture cerebrali preposte all’empatia
– la severità del burnout è invece correlata positivamente con la dissonanza emozionale e con l’alexitimia e anche con la predisposizione all’empatia (o capacità empatica).
Tali correlazioni incrociate depongono dunque a favore dell’ipotesi della dissonanza emozionale. Sarebbe cioè l’incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni , soprattutto di tipo negativo, a fronte di pressioni legate al lavoro, ruolo,altro, a causare maggiore stress e dunque a aumentare il rischio di burnout. Detto in soldoni, meno io riesco a individuare, ammettere ed esprimere la rabbia, la vergogna, l’irritazione la paura eccetera eccetera che mi suscita il paziente che sta davanti a me, più io sarò stressato ed andrò incontro al rischio di sviluppare un burnout o peggio.
We thus speculate that reduced emotion recognition (that is, alexithymia) might potentially link with stronger emotional dissonance and greater burnout severity alongside reduced empathy-related brain activity. In this view, greater empathic disposition in those with higher burnout levels may be because they have more difficulty identifying their emotional reactions.
Moreover, a negative correlation between empathy-related brain activity and difference scores between post-scan ratings of the pain stimuli may also go along with higher alexithymia and emotional dissonance tendencies. Differences between distress and pain scores can be considered representations of the state of emotional dissonance; that is, participants with subjective distress scores greater than their objective ratings of pain showed weaker brain activity and stronger burnout severity.
Sembra inoltre che la ridotta capacità a distinguere tra emozione propria ed altrui, con conseguente aumentato rischio di burnout derivi da una specifica riduzione di attività della giunzione temporo-parietale, decisiva per la discriminazione tra emozioni proprie ed altrui.
Moreover, TPJ is involved in distinguishing between awareness of self and others during empathic behavior,50 metalizing51 and alexithymia.52 Our results could imply that participants with reduced TPJ activity make a weaker distinction between one’s own emotion and that of another person, thereby evoking stronger feeling of dissonance and/or reduced emotional recognition.
Gli autori così concludono
In conclusion, burnout in medical professionals might be explained by reduced empathy-related brain activity. This reduced brain activity was also associated with greater difficulty in recognizing one’s own emotional state, as well as with greater self-reported empathic disposition. Our results support findings from previous behavioral studies, arguing that burnout is related to weakened emotional regulation.
Corollario pratico
Mi permetto un corollario, tornando alla “troppa sensibilità” del nostro/a amico/a, che è poi la fragilità che è in noi, cui Borgna ha dedicato splendide riflessioni. Il problema non è qui la “troppa sensibilità” da “curare con l’egoismo”, né l’eccesso di empatia, senza un minimo della quale mi sembra obiettivamente difficile esercitare una qualunque professione socio-sanitaria. È certo opportuno che il/la chirurgo /a ne abbia meno dello/a psichiatra e dello/a psicoterapeuta ma un minimo – non sindacale, né regolato da un’ Authority – mi sembra irrinunciabile per tutti. La difficoltà consiste piuttosto nella regolazione emozionale della stessa, una capacità da apprendere, sviluppare e perfezionare soprattutto – ma non solo – nelle professioni socio-sanitarie. È indispensabile riconoscere le proprie emozioni e saperle distinguere da quelle altrui, ammettere sentimenti spiacevoli ma non per questo meno importanti come irritazione, rabbia, colpa, vergogna, antipatia suscitati dai pazienti ma che hanno a che fare con noi e con le nostre esperienze, e infine esprimere ed elaborare nel setting adeguato questo oneroso fardello emotivo. Proprio per questo tutte le persone che lavorano nell’ambito socio-sanitario e in particolare gli psicoterapeuti devono poter contare su regolari e regolati momenti di scambio, intervisione e supervisione in cui le emozioni piacevoli e spiacevoli trovano spazio, rispettosa accettazione e professionale elaborazione emotiva e cognitiva. Se tale possibilità viene a mancare e magari altri eventi stressanti familiari/sociali sopraggiungono i rischi di crisi per chi lavora in questo campo sono concreti e molteplici: agire i conflitti propri sul paziente, violare i confini professionali, inaridirsi in un cinismo più o meno tecnico o pragmatico, esaurirsi emozionalmente, andare incontro al burnout e alla depressione. Ne so personalmente qualcosa.
Uno psicanalista un po’ dimenticato, Michael Balint, del quale è stato recentemente ristampato “Medico, paziente e malattia”, aveva dato vita già negli anni 50 del secolo scorso a gruppi detti poi in suo onore gruppi Balint. La loro funzione è proprio di consentire a persone professionalmente soggette a grande impatto emozionale (originariamente medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali ma successivamente anche, insegnanti educatori e avvocati) di avere spazi per riflettere sul loro rapporto con il paziente/cliente/alunno. In un setting professionale sotto la guida di un conduttore esperto e in un clima di libertà di pensiero e di tolleranza emotiva è possibile, grazie allo specchio degli altri, riconoscere ed ammettere le proprie emozioni senza rimuovere quelle spiacevoli, facendone anzi occasione per meglio comprendere il rapporto. “Frech denken, vorsichtig handeln” (pensar male e agire con giudizio) era il motto di Balint, tramandato da Honegger. Non aver paura di riconoscere e formulare nel setting del gruppo i pensieri e soprattuto le emozioni che il paziente suscita in noi. Solo così è possibile diventarne consapevoli, non farsene infiltrare,e (forse) trovare la giusta distanza empatica nel rapporto terapeutico, accompagnando con caloroso rispetto il paziente lungo la sua strada.
Da oggi vorrei chiudere i miei post con un breve suggerimento musicale.
Quanto mai in tema:
Dissonanze
Mozart – String Quartet No. 19 in C major, K. 465 ‘Dissonanzen’ – I. Adagio – Allegro
via @paoloigna1
Immagine: Edward Hopper, Room in New York, www.wikiart.org