“Troppo stress: un medico su tre abbandona la professione”: questo il titolo in prima pagina di uno dei maggiori quotidiani svizzeri, il Tages Anzeiger del 28 gennaio.
Il quotidiano cita uno studio dell’osservatorio svizzero per la salute (Obsan) dal quale risulta infatti che il 31% dei medici “formati a caro prezzo” non è più attivo nel sistema sanitario. A colpire è soprattutto il fatto che la maggior parte di quelli che abbandonano la professione sono giovani sotto i 35 anni in particolare donne. Nelle due pagine interne che il quotidiano dedica al tema vengono intervistati alcuni giovani medici che avevano avviato la loro specializzazione in branche diverse della medicina, la radiologia, la chirurgia, l’ortopedia etc. ma che, nonostante una grande motivazione e passione, hanno deciso di lasciare la professione medica per dedicarsi ad altre attività.
Fattori di stress
Nelle interviste così, come in altri dati riportati dal quotidiano, ritornano alcuni ricorrenti fattori di stress. Innanzitutto l’orario di lavoro: per legge non dovrebbe superare le 50 ore! di lavoro settimanali ma dai dati forniti da uno studio demoscopico commissionato dall’associazione svizzera degli assistenti ed aiuti medici l’orario effettivo settimanale nel 2020 risultava essere di 56 ore, (ed allora si era ancora in epoca pre COVID!) A titolo di paragone ricordo che il mio orario come assistente in reparto psichiatrico in Italia nel 1994 era di 37 ore e 30 minuti alla settimana. Quando, nello stesso anno, ho firmato il mio primo contratto come assistente in una clinica psichiatrica svizzera ho constatato con stupore che la voce orario recitava: l’orario viene stabilito dal primario secondo le esigenze della clinica. Solo dopo il 2000 si è giunti in Svizzera ad una regolamentazione per legge dell’orario dei medici ospedalieri fissato appunto in un massimo di 50 ore settimanali, regola peraltro spesso ignorata o comunque disattesa. Anche negli ambulatori e negli studi dei medici di base gli orari lavorativi sono analoghi se non addirittura superiori. Anche qui a semplice titolo di confronto, come psichiatra e psicoterapeuta libero professionista lavoro anch’io non meno di 50 ore settimanali.
A questo punto subentrano altri fattori di stress. Con un simile orario di lavoro rimane indubbiamente molto poco tempo per la vita privata, per non parlare del tempo libero, degli hobby, dello sport eccetera. Questa è anche una delle principali critiche che i medici rivolgono al sistema sanitario così come è tuttora strutturato: l’impossibilità cioè di avere una propria vita. Ma non mancano le critiche anche alle fasi dello stessa attività lavorativa. Molti medici ospedalieri e ambulatoriali lamentano di dover trascorrere sempre più tempo davanti al computer e averne conseguentemente sempre meno per i pazienti che a loro volta soffrono per la carenza di un rapporto umano con i curanti. Molti studi dimostrano infatti che il carico amministrativo dei medici dentro e fuori l’ospedale è notevolmente aumentato negli ultimi anni. Ciò porta anche ad una riduzione della motivazione degli stessi medici che si sentono “ridotti” a ruoli amministrativi anziché di effettivo aiuto al paziente. L’aumento del carico lavorativo complessivo rende inoltre sempre più stressante l’attività professionale aumentando il rischio di commettere errori, nonché la paura di farlo. I medici assistenti si trovano sempre più spesso tra due fuochi: le aspettative crescenti dei pazienti da un lato e le richieste non meno pretenziose dei primari dall’altro, i quali vengono percepiti più come controllori che motivatori dei loro reparti. Si viene così a creare un circolo vizioso tale per cui l’aumento del carico lavorativo si traduce in aumento della pressione psicologica, diminuzione della motivazione così come della concentrazione e pone dunque le premesse per un incremento dei casi di burnout e alla lunga di abbandono di una professione fino a poco tempo fa considerata come tra le più ambite e soddisfacenti.
Il sistema sanitario italiano
Noi tutti i fattori di stress che ho citato relativi al sistema sanitario svizzero valgono naturalmente anche per quello italiano, nel quale il carico negativo è piuttosto rappresentato dalla disorganizzazione, dalla mancanza di risorse, dalla sperequazione tra diverse regioni ed ospedali, da rigidità burocratiche e comportamenti paternalistici se non baronali della dirigenza. Gli esiti finali tuttavia non cambiano sostanzialmente. L’insoddisfazione, qualunque ne sia la causa, si traduce in una progressiva riduzione di motivazione fino a comportare in Svizzera l’abbandono della professione medica in un terzo dei casi e in Italia spesso l’abbandono del suolo nazionale per ricercare all’estero posti di lavoro non solo meglio retribuiti ma più motivanti e soddisfacenti. In questa catena di insoddisfazioni si vengono a determinare esiti paradossali tali per cui i giovani medici svizzeri insoddisfatti lasciano il posto a colleghi provenienti da altri paesi europei (tra cui appunto l’Italia) a loro volta insoddisfatti dalle condizioni di lavoro dei loro paesi d’origine.
Trasformazioni generazionali
Così come in altri ambiti professionali, anche nella medicina i più giovani colleghi e le più giovani colleghe manifestano un’insoddisfazione che è una sfida e rappresenta anche una trasformazione generazionale. Venendo da una famiglia di medici, vedo questa trasformazione riflessa nelle generazioni della mia famiglia. Mio nonno all’inizio del secolo scorso si trasferisce dal mare di Manfredonia alla nebbia di un paese della provincia bresciana per svolgervi l’attività di medico condotto con i pochi ritrovati della medicina del tempo. Mio padre, che ha scritto la sua tesi nel 1940 sui sulfamidici (i predecessori degli antibiotici) ha portato in un altro paese della bassa bresciana la medicina come la intendiamo attualmente, rimanendo a disposizione dei pazienti giorno e notte per 365 giorni all’anno, ferie escluse. Io ho avuto la possibilità che mio padre non ha avuto, di specializzarmi (in psichiatria) e di proseguire la mia formazione (in psicoterapia) ma certo all’interno di un sistema ferreo di turno e di regole, giornate feriali scandite pressoché unicamente dal lavoro ed in cui parlare di burnout veniva considerata una barzelletta di cattivo gusto. Ora le/i giovani della generazione di mio figlio non vogliono più sacrificare la loro vita alla causa ma desiderano essere professionisti seri, consapevoli delle loro capacità ma anche dei loro limiti. Si trovano di fronte la sfida di utilizzare il digitale per rendere o far ritornare la medicina più a misura d’uomo, perché, come diceva Balint, il medico è la medicina.
Immagine: Series: Dance of Death, Holbein il giovane, The British Museum