“Ero fatta di ghiaccio e dovevo rimanere nelle vicinanze di una complicata macchina di raffreddamento per non sciogliermi completamente”. Questo sogno di una paziente è una micro-narrazione di compattezza ed efficacia fisico-matematica ma anche di straordinaria intensità emotiva. In poco più di 140 caratteri esprime l’angoscia di una giovane donna di annullarsi nell’insopportabile calore degli impulsi cui è sottoposta, l’irrisolto dilemma tra vita nel gelo sentimentale e morte nel calore della vita, la necessità di vicinanza ad un sistema/persona di raffreddamento emozionale, la consapevolezza del pericolo cui sta andando incontro nella vita reale, la richiesta di aiuto e mille altre cose ancora più significative di tanti test e colloqui. La narrazione riesce a riassumere in poche righe un’infinità di informazioni cognitive ed emotive che neanche i tanto celebrati Big data (vabbè…). E soprattutto riesce a farlo in un modo straordinariamente affascinante come racconta L’istinto di narrare che rivela quanto potentemente ci attraggano le strutture narrative dalla Bibbia agli spot attuali. Ma le storie curano anche, come ci ricordava fin dal 1983 Hillman, che si rifaceva a sua volta ai capostipiti della psicologia del profondo, Adler (“siamo guidati da finzioni”) Jung (” la psiche consiste essenzialmente in immagini”) e Freud le cui storie cliniche si leggono come romanzi, anzi, da molteplici punti di vista, lo sono. Non minore è stata d’altro canto l’importanza delle storie, dei casi, per la fenomenologia, basti pensare a Binswanger ( Il caso Ellen West e altri saggi, Il caso di Suzanne Urban: storia di una schizofrenia) e in Italia alla straordinaria opera di Borgna cui si deve il merito di aver saputo coniugare con finissima sensibilità umana ed artistica narrazione clinica e narrazione letteraria.
Nel frattempo la medicina narrativa, termine coniato da Rita Charon ha acquistato riconoscimento scientifico e diffusione internazionale. Proprio in questi giorni a Ragusa se ne celebra il primo congresso italiano sotto la guida del Prof Virzì che qui ne illustra caratteristiche e scopi, a partire dall’attenzione alle storie dei pazienti alla “costruzione condivisa tra medico e paziente del significato del vissuto di malattia”
“La Medicina Narrativa (o Narrative Based Medicine, NBM, secondo la formulazione della Harvard Medical School ) nasce proprio con il tentativo – scrivono i responsabili di h.story – di colmare la mancanza della Medicina Basata sull’Evidenza di prendere in
considerazione per la cura gli aspetti personali del malato. … Le storie offrono l’occasione di contestualizzare dati clinici e soprattutto bisogni, e permettono di leggere la propria
storia con gli occhi degli altri, apportando una ricchezza e una pluralità di prospettive oggi assenti.” La medicina narrativa ha inoltre oggi straordinarie opportunità: con le digital Humanities, il digital Health, la Graphic Medicine ,dunque con la sempre maggiore attenzione/partecipazione dei pazienti alla cura resa possibile dal digitale, si può davvero aprire al futuro, un futuro prossimo venturo che la mia vicina di blog l’antropologa Cristina Cenci rende affascinantemente presente nel suo blog.
Largo dunque alle magnifiche sorti e progressive della medicina narrativa? Se da un lato è confortante che i principi basilari della medicina narrativa vengano (ri)scoperti e diffusi al punto che persino Corbellini, consueti pregiudizi anti-analitici a parte, le dedicava un bell’articolo sul Domenicale di domenica scorsa, mette un po’ tristezza che servano nuove sigle/aggettivi per far ricordare a noi medici e in particolare psichiatri un aspetto così essenziale della nostra professione, quello da cui è nata: il racconto della sofferenza e del rapporto che tra medico e paziente si crea nel tentativo di lenirla. Ancor più triste che il sempre più inflazionato storytelling, ormai inevitabile corollario di ogni prestigioso concorso a premi, rischi di banalizzare questo concetto, risolvendosi in un’auto-narrazione quanto mai sterile, oltre che (spesso) stilisticamente discutibile.
Quando una paziente mi racconta che la sua vita è stata una ininterrotta successione di Burnout provocati dai suoi familiari e peggiorati e cronicizzati dai precedenti miei colleghi, nessuno escluso, devo certo rispettare la sua verità narrativa ma non credo che le sarei di grande aiuto se colludessi con questa sua verità soggettiva, inveendo con lei contro i presunti carnefici – anche perché al più tardi nel giro di un paio di mesi verrei aggiunto alla lista. Il bello (e il difficile) comincia proprio quando la narrazione soggettiva si incontra/scontra con quella del terapeuta e viceversa; quando la verità narrativa è costretta poi a confrontarsi con quella “obiettiva” dei criteri medici, della classificazione internazionale dei disturbi psichici, con le valutazioni del medico di fiducia di casse malati e assicurazioni, con le esigenze del lavoro, i bisogni dei familiari… E in questo confronto/scontro con i tanti soggetti della realtà esterna si riflette il difficile, tormentato, irrisolto rapporto tra le diverse parti, le diverse storie del paziente. Che non sono mai univoche, come univoca non è la mia di terapeuta, segnato certo dalla mia formazione ma prima ancora da esperienze e vissuti che entrano più o meno in risonanza (o dissonanza) con quelle del/la paziente che mi sta davanti. In questo conflittuale rapporto intra e interpersonale tra mille parti e persone (vere e fantasmatiche) si costruisce faticosamente una storia. Per dar senso a ciò che di senso appare, è privo. E che senso può acquistare solo dopo esser stato vissuto. La stessa possibilità di riscrivere la storia è comunque un tenue filo di speranza in una realtà esteriore e soprattutto interiore che sembrano irrimediabilmente già scritte e definitivamente determinate. Nel momento in cui ricordiamo le nostre esperienze le relative tracce mnestiche divengono labili, le proteine di cui sono fatte possono essere ricombinate, dando luogo a nuove inaspettate associazioni, che possono a loro volta modificare il nostro modo di guardare a/trattare quelle esperienze. Rimanere aperti a nuove storie nonostante la determinatezza che incombe su ciascuno dei soggetti (paziente, terapeuta, familiari, colleghi di lavoro, amici) è forse la cosa più difficile nella terapia, anche perché si tratta di rimanere aperti a inaspettati scarti di cui il/la paziente non è ancora (pienamente) consapevole, senza imporre le storie che più o meno consciamente si agitano nella mente del/la terapeuta. Lasciare aperta, diciamo pure socchiusa la porta della mia paziente e la mia alla possibilità che non si ripeta per l’ennesima volta il Burnout ma nasca qualcosa di nuovo (ma cosa esattamente? e quando? e in che modo?) è prestar fede “a un risveglio da parte del cuore che immagina, delle sensibilità, delle intimità, dei ricordi” (Hillman). Per questo la narrazione poetica è così importante in psicoterapia. Un modello cui rimanere sempre fedeli per tradire sempre la versione attuale e aiutare da editor discreto il/la paziente a scriverne un’altra, sempre provvisoria.
Forse per questo trovo quanto mai moderna e psicoterapeuticamente preziosa l’opera di ETA Hoffmann, “Il gatto Murr” in cui come dice il sottotitolo “Le sagge riflessioni del gatto Murr” vengono “mischiate a una biografia frammentaria del maestro di cappella Johannes Kreisler”, avendo il gatto usato la biografia dell’artista come fogli di maculatura, di brutta insomma, per scrivere sul retro la propria.
Mentre dunque la biografia del gatto filisteo si presenta come un ordinato e pedante romanzo di formazione – che da a Hoffmann l’occasione per far la parodia del genere – la vita dell’artista, prostrato dalla forza distruttrice della propria arte, è piena di lacune, discordanze e confusioni. Temo che “le sagge riflessioni del gatto” siano quelle che portiamo ai congressi. Per dimostrare ai colleghi e a noi stessi che, certo dopo gravi crisi e con molte difficoltà (un po’ di pathos ci vuole in ogni racconto) siam riusciti a capire (se non anzi a spiegare) la storia del (o addirittura al) paziente. I fogli strappati, dalla scrittura incerta e frammentaria sono quelli delle nostre cartelle, dei confusi pensieri e sentimenti che si agitano in noi e ancor di più nel/la paziente senza riuscire a trovare compiuta e coerente forma di espressione. Forse la medicina narrativa può aiutare paziente e terapeuta a scrivere sullo stesso foglio, possibilmente sullo stesso verso.
Suggerimento musicale
Robert Schumann – Kreisleriana opus 16 – Vladimir Horowitz