Lo straniero

Cosa fa di uno straniero un nemico? Si chiede il filosofo Bernhard Waldenfels. Quanto stranieri sentiamo i migranti di cui non comprendiamo la lingua e dei quali forse non riusciamo nemmeno a comprendere le abitudini e la storia di vita? si chiede lo psichiatra e psicanalista svizzero-tedesco Joachim Küchenhoff
Le risposte si trovano nel numero attuale della rivista Archivi svizzeri di neurologia, psichiatria e psicoterapia pressoché interamente dedicato al tema, reso quanto mai attuale dalle odierne migrazioni, dello straniero (e della Svizzera come terra di immigrazione).
Sia l’Italia che, prima ancora, la Svizzera sono stati paesi di emigrazione. I bambini più poveri delle valli svizzere erano portati nell’ottocento a Milano a fare, in condizioni di semi-schiavitù, gli spazzacamini. Il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera e tanti altri paesi, estremo negli anni 60, 70 non si è ancora arrestato. Quanto abbiamo rimosso di quel periodo e di quella condizione in cui eravamo noi gli stranieri, visti come braccia anziché come uomini (Max Frisch), come fastidiosi concorrenti e rivali se non addirittura pericolosi nemici? Vale per lo straniero fuori da noi quello che vale anche per l’estraneo dentro di noi – e che Freud, prendendo spunto dal racconto L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, descrive mirabilmente nel suo breve saggio Il perturbante?  Più qualcosa ci fa paura, più la rimuoviamo, respingiamo, allontaniamo fino a non riconoscerla più come propria. Il perturbante, ci dice Freud, è qualcosa di assai noto e familiare (heimlich) che abbiamo rimosso in un luogo inaccessibile della nostra psiche (unheimlich, segreto) e che ritorna. Vale questo meccanismo anche per lo straniero? E che cosa in lui ci fa così paura? Verosimilmente percepiamo la condivisione della sua debolezza, della sua precarietà e del suo bisogno – prima ancora che degli stessi ambienti, strutture e servizi – come estremamente pericolosa, minacciosa, inquietante. Il tangibile ricordo della nostra fragilità (Phillips) e dell’illusione della nostra autonomia, di quanto poco siamo padroni in casa nostra (Freud).
Ma Waldenfels, che dell’estraneità ha fatto il tema della sua ricerca filosofica, va oltre e confrontandosi con la forma radicale di estraneità constata che questa porta con sé davvero una sensazione di radicale inaccessibilità e non-appartenenza. Non nel senso relativo di una temporanea mancanza secondo la quale lo straniero non ha ancora imparato la nostra lingua ma l’imparerà, non si é ancora integrato ma si integrerà, non condivide i nostri valori ma condivide l’accesso alla ragione universale, al Logos, “l’accès illimité au discours” (Habermas). Waldenfels concepisce l’esperienza dello straniero come un’ impossibilità vissuta, non addomesticabile e non riducibile a null’altro tale da incrinare per un momento la possibilità stessa del terenziano “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. C’è secondo Waldenfels nell’esperienza dell’estraneità una sorta di interruzione, di violenta lacerazione paragonabile a quella del trauma. Eccessivo? Mi domando cosa provo di fronte a Trump ed alla sua elezione a presidente della più potente nazione del mondo (occidentale) e il concetto dell’estraneità radicale di Waldenfels mi diviene improvvisamente quanto mai familiare.
Per spiegare meglio la propria concezione Waldenfels ricorre (per fortuna!) ad alcune metafore, che qui riprendo. Quella dell’ospite, la cui etimologia latina è assai affine a quella del nemico (hospes, hostis). L’ospite è lo straniero sulla soglia. La sua appartenenza è dunque incompleta, non pienamente dentro, ma neanche completamente fuori. “L’hôte est chez soi che l’autre” (l’ospite è a casa sua dall’altro”). Mentre l’ospite gode proprio per questo motivo di uno statuto di favore, il nemico, dice Waldenfels, è un ospite rifiutato. E cita, inevitabilmente Pascal e la riva del fiume che decide se fare di un uomo un assassino e dell’altro un cadavere
«Pourquoi me tuez-vous? – Eh quoi! ne demeurez-vous pas de l’autre côté de l’eau ? Mon ami, si vous demeuriez de ce côté, je serais un assassin, et cela serait injuste de vous tuer de la sorte ; mais puisque vous demeurez de l’autre côté, je suis un brave, et cela est juste. » (Pensées, Lafuma 51, Brunschvicg 293)
Se è letteralmente (ed etimologicamente) la riva che fa il rivale, per fare il nemico, ci vuole qualcosa di più. Questo passaggio avviene, afferma Waldenfels, nel mezzo della parola e del senso. Nel senso cioè che il rivale viene ridotto a quello che fa e dice, (Levinas) uno schiavo, un portatore di prestazioni, servizi, magari anche di valori, ma senza la dignità di una persona. Un qualcosa, dotato pure di prezzo, che può essere usato finché serve, ma che può essere allontanato e anche distrutto non appena diviene pericoloso.
Il nemico è un rivale senza possibilità di scorrimento. Anziché situarsi al tempo stesso all’interno e all’esterno dell’ordine come lo straniero, divide lui l’altro in due metà. Come amico, cioè come Alter Ego si trova all’interno, come nemico sta fuori. Per tornare alla metafora di Pascal
l’altro in qualità di amico sta su questa riva, l’altro in qualità di nemico sull’altra.
Questa dissociazione assume nell’inimicizia un carattere fisso e assoluto. Il nemico sta sempre sull’altra riva e contiene, rappresenta, incorpora tutto il male dal quale io mi posso al tempo stesso liberare. Accettare l’impotenza è forse la cosa in assoluto più difficile per noi. Ce lo dicono le nostre sconfitte e quella più definitiva, la morte. Accettare l’impossibilità vissuta del rapporto con un radicalmente altro, l’impossibilità/incapacità della spiegazione razionale, della comprensione empatica di fronte all’altro ci mette in una condizione di scacco. Caricare l’altro di ogni negatività (e della colpa dello stato delle cose!) ci consente di uscire dalla nostra impotenza, senza doverci assumere il peso e il dolore del lutto. Di fronte al nemico ci sentiamo buoni e puri.
Se poi la nostra identità, individuale, collettiva, nazionale è fragile, combattere il nemico può diventare, in un ulteriore paranoico passo “avanti”, la nostra stessa (quanto mai fragile e precaria) identità addirittura lo scopo della nostra (povera) esistenza. E se il nemico scompare anche la nostra identità vacilla.
 
Immagine tratta da: El Historiador
suggerimento musicale: Schumann, In der Fremde