Alzarsi da uno sgabello su una gamba sola dopo la doccia non è un esercizio da equilibrista e non lo è nemmeno, stando sulla stessa gamba, prendere lo sgabello, estrarlo dal vano doccia, poggiarlo a terra sul tappeto del bagno in modo che non scivoli quando si esce dalla doccia e ci si siede sopra per asciugarsi e togliere il sacchetto di plastica che si era messo a protezione impermeabile del gesso sull’altra gamba. La difficoltà è farlo per 8 settimane di seguito. E sempre per 8 settimane inserire ogni cosa che si intende spostare – salvo ovviamente i liquidi – nello zaino che si porta sempre con sé perché le mani sono impegnate con le stampelle e dunque non possono portare nulla. Chiedere favori alle persone che sono vicine è possibile ma non sempre piacevole. Camminare con le stampelle non è di per sé difficile ma rallenta notevolmente i tempi e, pur irrobustendo i bicipiti, pesa alla lunga sulle articolazioni delle mani. Naturalmente non si può guidare e…
Se non si fosse ancora capito, mi sono rotto un tendine di una gamba. Il ché è di per sé una banalità medica. Si interviene chirurgicamente per recuperare e ricongiungere i due capi del tendine, si applica un gesso o tutore a protezione del tendine che non deve essere sottoposto a carico per 8 settimane e alla fine, con un ciclo di fisioterapia, si provvede alla ripresa trofica del muscolo e dei movimenti.
In confronto ai mille disturbi gravi cui si può andare incontro, è una bazzecola, di cui non varrebbe nemmeno la pena parlare, soprattutto in una rubrica dedicata all’innovazione.
Ma, appunto, una delle prime facili scoperte che si fanno con un tendine rotto è che l’innovazione digitale, almeno qui e ora, 7.7.2019 e in (un Cantone periferico della) Svizzera, non ha molto da dire sul tema. Il gesso si è modernizzato ma tempi di attesa, di riposo e di ripresa sono ancora analogici. A conferma che viviamo nell’Onlife (Floridi) un mondo in cui analogico e digitale convivono ma in diversi campi sembrano ignorarsi reciprocamente.
Ben presto ho dovuto fare dentro di me l’esperienza, che è la malattia in quanto tale ad essere analogica, scandita da tempi immutati ed immutabili con i quali come paziente devo venire, volente o nolente, a patti. Sono infatti, in questa situazione, colui che patisce, soffre [dal lat. patiens -entis, propr. part. pres. di pati «soffrire, sopportare»] (Treccani) ma anche (aristetolocamente e dantescamente) colui che è passivo, deve accettare la forma che gli da l’agente, la disposizione che gli da il medico, l’infermiere, l’ospedale, l’ordine che da il corpo, la malattia. Ho dovuto riconoscere e accettare di non potermi muovere dal letto per i tre giorni successivi all’intervento. Ho accolto come uno straordinario progresso dopo l’ingessatura poter tornare a muovermi con le stampelle di cui ho però dovuto ben presto riconoscere i limiti. 500 metri sembrano una distanza siderale, un traguardo da sudare, non solo metaforicamente, le scale ostacoli supplementari, per non parlare di pozzanghere, animali, persone o cosa ad intralciare il percorso. Sono stupidaggini rispetto alle limitazioni di una malattia grave ma aiutano a sentire sulla propria pelle cosa voglia dire essere ridotti nella propria autonomia, dover accettare la debolezza del proprio corpo e l’aiuto degli altri. Se nel mondo digitale tendiamo a superare i nostri confini grazie alla tecnologia e siamo parte attiva di un mondo che sembra espandersi con noi, nella malattia facciamo costantemente esperienza di passività. In più dobbiamo valutare se accettarla totalmente perché i confini del nostro corpo non consentono altro o cercare di vincerla e fare un passo in più, un movimento più faticoso, svolgere un compito più impegnativo. E poi scegliere se accettare l’aiuto e dunque l’inevitabile dipendenza dagli altri che ne deriva. Sentirsi nuovamente bambini non autosufficienti da adulti e al contempo immaginare di poterlo diventare ancor più da anziani non è sempre facile ma si fanno anche piacevoli sorprese. Non potrò mai dimenticare un giovane giapponese che, vedendomi scendere da una lunga scala all’aperto, l’ha risalita di gran corsa per accompagnarmi a scenderla. Può capitare che scorbutiche cassiere offrano con gentilezza di far servire il caffè al tavolo invece che al banco, camerieri distratti divengano impeccabili maggiordomi e bambini curiosi lancino occhiate e talvolta domande che fanno tornare il sorriso. In generale dove più si è abituati alla dipendenza, come in Italia, più spontaneo è l’aiuto e dove prevalgono invece i valori dell’autonomia, come in Svizzera, ci si guarda bene dall’avvicinarsi alla persona con le stampelle per paura di ferire la sua privacy. Ma si fanno poi scoperte o conferme interessanti. Le donne percepiscono, come sempre, tutto prima e chiudono la porta dello studio con naturalezza dietro di loro. Gli uomini spesso si sono già seduti prima di notare che la porta è rimasta aperta, i più gentili chiedono se devono chiuderla. Gli autistici rimangono nel loro mondo e per loro la porta potrebbe rimanere anche aperta, il loro augurio di buona guarigione giunge proprio per questo ancora più sincero. Il mio cane le stampelle non le vuole proprio notare e il suo invito a giocare rimane una certezza. Le stampelle fanno sentire e vedere il mondo da un altro punto di vista e, come tutti i cambiamenti, soprattutto quelli non voluti, sono, possono essere, uno stimolo all’innovazione. Forse, presto, stampelle digitali sostituiranno quelle analogiche, maggiordomi digitali ovvieranno alle limitazioni della mobilità e della mancata autosufficienza. Credo però che il principale contributo all’innovazione che le stampelle offrono derivi dalla loro capacità di farci percepire i nostri limiti e la nostra dipendenza, la necessità di accettarla e di superarla insieme, come la siepe leopardiana.