Colosseo social

I social sono il nuovo Colosseo in cui ciascuno di noi decide con pollice recto 👍 o verso  👎 se graziare o condannare il malcapitato che si trova esposto al giudizio nell‘arena mediatica? Me lo chiedevo ieri con @Ferula18 dopo una giornata in cui l‘uccisione del povero Carabiniere Mario Cerciello Rega è divenuta occasione per una lotta verbale all’ultimo sangue, tragicamente quanto realisticamente fotografata in questo tweet da @giuliaselvaggi2
Oggi è stata una delle peggiori pagine di Twitter, specchio della società. Tutti contro tutti a farci la guerra sulla nazionalità di chi ha ucciso un carabiniere. Come se il problema fosse questo, non la vita che si perde. Si è perso il senso di tutto. Della vita, delle persone.
 
Si sa, si dovrebbe sapere, che odio genera odio, violenza genera violenza. Ma ormai è chiaro a tutti che anche l’indignazione, la condanna morale più o meno esplicita, l’invito alla moderazione non ottengono lo scopo di sedare la violenza da tastiera, continuando invece ad alimentare una reazione a catena, un’inarrestabile dinamica di mega gruppo che è d’altro canto proprio quella che sta alla base dei social network. Le nostre speranze erano altre, le attuali delusioni sono dunque ancora più cocenti. Le riassume bene Peter Pomerantsev:
“More information was supposed to mean a more informed debate, but we seem less capable of deliberation than ever. More information was supposed to mean mutual understanding across borders, but it has also made possible new and more subtle forms of subversion.”
I livelli a cui intervenire per contrastare questo andamento sono ovviamente molteplici. Tutti i social network hanno potenziato le misure e i controlli contro l’hate speech. Ne constatiamo però ogni giorno i notevoli limiti. D’altro canto proprio perché si tratta di controlli a posteriori – e non, per fortuna, di censure preventive – essi richiedono tempo e riflessione e non hanno pertanto pressoché nessuna efficacia durante le fasi più concitate del dibattito social, se ancora lo si può chiamare così. Sono nate meritorie iniziative per favorire in rete una comunicazione civile e responsabile, non ostile  nonché per contrastare anche legalmente l’odio
Contro la manipolazione intenzionale dell’informazione da parte di gruppi di potere e stati sono nati e stanno nascendo team multidisciplinari specializzati. Ne discute ampiamente nel suo bell’articolo Peter Pomerantsev, memore delle tecniche di propaganda e di repressione sovietiche, di cui ha fatto le spese ai tempi suo padre e che si sono ora tecnologicamente aggiornate. Le interferenze russe sulla sovranità nazionale dei paesi europei sono, in ogni senso, all’ordine del giorno.
Un tema assai meno discusso è invece la distorsione involontaria delle informazioni. Aldilà di coloro che hanno interesse politico e/o finanziario a manipolare fatti e notizie secondo tecniche che riprendono, secondo @colvieux  anche la propaganda nazista tutti abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana Onlife con distorsioni cognitive ed emozionali involontarie in quanto inconsce e dunque da noi stessi non percepite come tali. Siamo a tal punto influenzati da paure, desideri, impulsi che li proiettiamo non solo sulle nuvole – così da scorgervi quello che a noi pare – ma anche sul nostro vissuto quotidiano, leggendo e vedendo quello che vogliamo leggere e vedere, incuranti della realtà o meglio imprigionati nella nostra. L’Inconscio, l’imbarazzante sconosciuto che è in noi, condiziona la nostra vita, che noi abbiamo invece l’illusione di forgiare con piena consapevolezza. Noi stessi, di fronte a imbarazzanti lapsus, dimenticanze, sogni particolarmente significativi, ce ne rendiamo conto, siamo per un attimo disposti ad ammetterlo, salvo poi riprendere la nostra sicumera non appena crediamo di decidere le nostre sorti. Sappiamo che anche le decisioni più razionali degli altri, per antonomasia quelle di carattere finanziario, sono influenzate dalle loro paure dai loro desideri rimossi, ma quando si tratta di riconoscere che noi abbiamo sbagliato strada perché stavamo pensando alla/al nostra/o avvenente collega d’ufficio anziché alla/al partner che ci sta accanto in auto, non ja famo. So per certo che l’opinione sulla VAR del mio amico è influenzata dalla sua (obiettivamente discutibile 😉 fede bianconera, ma ammettere che l’erba del campo sia verde e non nerazzurra, questo mai. Perché la vedo effettivamente nerazzurra e ammettere razionalmente che è verde è uno sforzo immane. Che posso (forse) fare per lui, in un giorno festivo, al mare, sotto l’ombrellone o perché ho faticosamente imparato a farlo, pur con molte lacune, personalmente o professionalmente. Ma quando ho fretta, la VAR non l’ho manco guardata, se non distrattamente per pochi secondi, sono scocciato dal capufficio, stressato dalla/dal partner, preoccupato di arrivare in tempo al controllo medico, perché c’è pure lo sciopero dei mezzi pubblici, la mia erba è irrimediabilmente blu e nera, i ladri e gli assassini sono sempre della parte avversa alla mia e chi mi contraddice è come minimo uno s******. Figuriamoci poi se dalla mia parte ho anche giornalisti e rappresentanti istituzionali che vengono meno al loro dovere di imparzialità, anzi non lo prendono nemmeno in considerazione.
Perché in fin dei conti i social sono nati perché noi tutti, scrittori solo potenziali, sognatori ad occhi aperti, potessimo raccontare l’erba dal nostro punto di vista. Le mille forme che essa può assumere, le mille sfumature dei suoi colori, le mille emozioni che può suscitare in noi. Se però poi tutto si risolve nella lotta per affermarne a forza il colore dell’erba a costo di non guardare più ciò che nell’erba e in noi vive e si muove, o addirittura di distruggerlo, che gusto c’è, oltre a quello dell’illusorio potere? Anzi quando l’irritazione e la rabbia salgono oltre un certo limite non conta più neppure chi ha ragione sul colore dell’erba. Si viene travolti, ci si lascia travolgere da emozioni primordiali molto più forti dello stesso contenuto del tweet o del post in un contagio emotivo (rabbioso) inarrestabile, in cui ingiurie, condanne, distinzioni hanno ormai tutte lo stesso colore, nero, il tono del livore, del risentimento e dell’odio. Freud ci ha insegnato che per mettere fine a questa dinamica che pensiamo di controllare ma che in realtà ci controlla l’unica possibilità è l’astinenza, la necessità e la capacità cioè del terapeuta di fare da specchio e di riflettere con freddezza da chirurgo al paziente le emozioni che la relazione suscita. Naturalmente sui social non siamo in terapia, anche se siamo più vicini al nostro inconscio di quanto vogliamo ammettere. Non è né realistica né auspicabile sui social un’astinenza simile a quella della psicoterapia. Eppure credo potrebbero essere maturi i tempi per social nei quali mediatori si assumano il compito di riflettere la dinamica creatasi in rete su uno specifico tema in un particolare contesto, indirizzando la discussione non nei contenuti ma nelle regole comunicative, nel Setting. Al cinema è previsto il buio in sala, ai concerti il silenzio, nelle discussioni un minimo di FairPlay altrimenti ci scappano, concretamente o metaforicamente, morti e feriti. Esistono già esempi di questo modello, anche se limitati ad ambiti ristretti e legati a tematiche specifiche come ad esempio la salute mentale. È il caso di Mental Health Chat una sorta di chat pubblica su temi specifici condotta da un mediatore. Naturalmente ciò susciterebbe subito il timore di una perdita della propria autonomia e libertà. Ma è una paura che potrebbe essere superata qualora si riscontrasse che il dialogo ne trae giovamento. La libertà non verrebbe intaccata. Ognuno si comporta come più gli aggrada. Se si attiene alle regole del Setting è più probabile che venga riconosciuto come partner autorevole del discorso ed entri dunque in dialogo con gli altri in una conversazione “facilitata” da un “mediatore” che ha appunto il compito di mantenere il Setting adeguato al dialogo. Se invece la persona riesce a sfogare la propria frustrazione solo offendendo gli altri, si mette automaticamente fuori dallo spazio riconosciuto del dialogo e proseguirà da solo con i propri insulti come gli ubriachi che riescono a prendere a male parole il mondo intero solo dopo aver bevuto. È uno sfogo legittimo – e in cui tutti prima o poi incorriamo – ma che non può aver la pretesa di presentarsi come un dialogo, sia pure social.
Immagine: Gérôme, pollice verso