Carne e parola

Nei concitati giorni che precedettero la morte di mio padre il mio analista mi scrisse un biglietto. Con poche, sobrie parole mi esprimeva la sua vicinanza, mi invitava a non preoccuparmi delle sedute dell’analisi e a riservare il mio tempo, le mie energie per quei momenti delicati. Sentendo la mia insicurezza, aveva infranto l’astinenza dell’analisi ed era riuscito a fare di quelle parole sentimenti concreti di vicinanza e di affetto. Ripensavo a quelle parole leggendo la splendida citazione di Baumann, segnalatami da @ergoelle4 “ Chi è capace oggi di far diventare carne la parola?“
La domanda  di Baumann si rifà ad una riflessione del grande scrittore Elias Canetti che, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, annotava “se fossi un vero scrittore avrei dovuto essere in grado di impedire la guerra.“ intendendo con ciò che uno scrittore è “vero” in quanto le sue parole fanno la differenza tra il benessere e la catastrofe.“ e che “ in un mondo che foss’anche il più volontariamente cieco, la presenza di persone che insistono tuttavia sulla possibilità del suo cambiamento acquista un’importanza suprema.”
Baumann constata però che “il nostro mondo appare tutt’altro che ospitale per i veri scrittori come descritti da Canetti. Sembra essere ben protetto non contro le catastrofi ma contro i loro profeti.” Per fortuna oggi non ci troviamo di fronte ad una catastrofe ma certo ad una grande emergenza, quella del COVID 19 di fronte alla quale le riflessioni di Baumann appaiono quantomai calzanti. Noi, i residenti di questo mondo ben protetto, siamo effettivamente corazzati nelle nostre sicurezze quotidiane salvo poi lasciarci sconvolgere dalla paura di un contagio che minaccia di togliercele completamente. Nonostante le pressanti raccomandazioni di tutte le autorità competenti, le conoscenze e le possibilità a nostra disposizione, fatichiamo ad assumere comportamenti coerenti e adatti alla serietà del momento. Da una parte ci lasciamo travolgere da un un’ansia che sconfina nell’isteria dell’amuchina, della carta igienica o nella psicosi da virus. Dall’altro neghiamo con incoscienza ogni pericolo riunendoci a far festa come bambini piccoli che hanno bisogno dei compagni per poter sopportare e superare la paura. Le parole delle istituzioni e di chi le rappresenta, salvo poche eccezioni come per fortuna quella del nostro presidente Mattarella, non ci toccano. Anche le parole degli scienziati con l’eccezione di quelle competenti e al tempo stesso calde e comprensive di Ilaria Capua, suscitano piuttosto fastidio e sono occasione per ulteriori stupide partigianerie. Le misure di contenimento del contagio vengono accolte con la stessa insofferenza, sfiducia, diffidenza delle parole.
Quando sono efficaci allora le parole?
Possono naturalmente diventarlo quando sono parole di potere. Lo straordinario successo delle misure di contenimento del contagio che l’editoriale della prestigiosa rivista Lancet riconosce al governo cinese non credo derivi dalla “pronta accettazione del popolo cinese” quanto dal regime dittatoriale e di paura in cui tali misure sono state autoritariamente decise, imposte e realizzate sulla testa di milioni di persone. È questo il tipo di parola d’ordine cui aspiriamo non essendo contemporaneamente capaci di rimanere a casa per un fine settimana?
Forzatamente costretti all’immobilità fisica dalle parole altalenanti, imbarazzate, confuse del governo, avremmo le parole di un intero mondo digitale a nostra disposizione. Non solo per lo smart working, la scuola digitale ma anche e soprattutto per il contatto tra di noi e con i nostri cari nelle zone rosse, per scambiarci reciprocamente conforto e forza in un momento che mette alla prova non solo il corpo ma anche la nostra mente. Potrebbe essere un fiorire di iniziative con cui scoprire nuove potenzialità del digitale per comunicare e condividere. Anche qui tuttavia sembra riusciamo a trovare tante parole ma non quelle che si fanno carne Felicia Pelagalli ha riassunto qui la mappa delle parole scambiate su Twitter sul tema del Coronavirus. “Più di 2 milioni di tweet, in poco più di due settimane, in Italia” raggruppabili in 4 aree tematiche: contagio, gestione dell’emergenza, chiusura delle scuole, news dal mondo. Naturalmente è fondamentale lo scambio di informazioni e di conoscenze sul contagio, su tutte le misure per contrastarlo così come su tutti i provvedimenti sanitari. Altrettanto naturale e umano scaricare la propria angoscia e talvolta anche il proprio odio in rete nell’illusione di potersene liberare. Può forse momentaneamente aiutare a distrarsi litigare su mortalità e letalità del virus, statistiche, grafici e colpe (altrui) nella trasmissione del contagio. Nella lunga durata abbiamo però bisogno di di parole che diventino riflessione, scambio di sentimenti, vicinanza affettiva, insomma carne. Possiamo aspettarcele da scrittori “veri” come quelli descritti da Canetti ma per la prima volta nella storia dell’umanità possiamo facilmente scambiare e condividere noi parole “vere” e farle diventare parte vivente, attiva, creativa del nostro quotidiano. Non ci servono la saggezza preconfezionata di Freud in aforismi, i versi più accattivanti di Alda Merini, i tramonti in montagna, le albe sulla spiaggia, dipinti fin troppo conosciuti a far da sfondo a banalità note. Abbiamo bisogno che le parole dei social in questo momento di prova e di emergenza ci facciano sentire la vicinanza sincera di altri che come noi soffrono e sperano, inventano nuove strategie di resistenza contro l’ansia e sperimentano con noi nuove possibilità di dialogo e di comprensione.
Paradossalmente quelli che potrebbero meglio capire le nostre angosce sono quelli che noi ora stiamo scacciando dai nostri confini, militarmente difesi, quelli che con la sofferenza, l’imprevedibilità, l’impotenza ci vivono tutti i giorni, senza sapere se arriveranno a sera. Un altro grande intellettuale del passato, ci ricorda Baumann, Arthur Koestler ammoniva che alla vigilia di un’altra grande catastrofe “nel 1933 e successivi due o tre anni, le sole persone con un’intima comprensione di quello che accadeva nel giovane terzo Reich erano alcune migliaia di rifugiati“.
Mozart Messa KV 427 Et incarnatus est