In un celebre dialogo del Galileo di Brecht, Fulgenzio, un ecclesiastico e fisico, allievo di Galileo, figlio di poveri contadini dell‘Agro romano, chiede spaventato a Galileo cosa sarà dei suoi poveri genitori se verranno informati delle nuove rivoluzionarie scoperte galileiane eliocentriche
„Come la prenderebbero ora, se andassi a dirgli che vivono su un frammento di roccia che rotola ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e gira intorno a un astro, uno fra tanti, e neppure molto importante?
Che scopo avrebbe tutta la loro pazienza, la loro sopportazione di tanta infelicità?“
La risposta di Galileo è nota: “La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano“ Suona fin troppo razionalista, impositiva, militaresca per il nostro tempo. Eppure credo che non sia inutile ripartire da questo dialogo per riflettere sul ruolo della scienza nella società attuale, in particolare al tempo della pandemia da coronavirus.
Siamo oggi consapevoli di vivere in una società “liquida”, in un’epoca d’incertezza inaugurata dal concetto di inconscio, dal principio di indeterminazione, dalla teoria della relatività, caratterizzata da “passioni tristi”, da un pensiero debole. Lo stesso modello di scienza si è radicalmente trasformato passando da un’impostazione lineare-deterministica a una probabilistica, che prevede più di una risposta a seconda del contesto di riferimento. Se da un punto di vista teorico tutto ciò è risaputo, quasi scontato, nel quotidiano fatichiamo tuttavia non poco ad accettare l’incertezza delle scienze naturali, cui tendiamo a chiedere, anzi da cui pretendiamo la certezza. A maggior ragione di fronte ad una minacciosa incognita come quella del COVID-19. La comunicazione scientifica e divulgativa attuale al riguardo sui mass e social media è lo specchio, talvolta drammatico, talora satirico, di questo conflitto tra una scienza sempre più probabilistica e un bisogno panico di certezza in un contesto mediatico spesso fin troppo emozionale. Mi sembra che contribuisca alla confusione una modalità poco chiara di intendere tre concetti simili, eppure diversi tra loro:
dubbio, incertezza/probabilità, insicurezza.
Non vi è dubbio che sia il dubbio a fondare la scienza e come scrive Paolo Giordano conviene ribadirlo più che mai ora “Il ruolo è proprio quello di riportare al centro il dubbio. L’importanza delle domande invece delle risposte, delle argomentazioni invece dei post assertivi e ipersemplicistici. Sarebbe una grande occasione per arginare questa pandemia di semplicismo. Perché i sistemi in cui siamo immersi sono complessi e lo sono a un livello mai visto in passato.” Tutto vero, a livello epistemologico. Tutti sappiamo o dovremmo sapere che la scienza attuale si fonda sull’incertezza, cioè sulla probabilità, come spiega Hykel Hosni nel suo “Probabilità. Come smettere di preoccuparsi e iniziare ad amare l’incertezza”. Mah, proprio amarla mi sembra un’aspettativa un tantino assoluta, se non assolutistica, credo sarebbe sufficiente conviverci. Anche perché non possiamo fare diversamente, come dimostra la breve storia del concetto di probabilità che il matematico Marco Li Calzi traccia nel suo agile e comprensibile (anche per me!) La matematica dell’incertezza Li Calzi ricorda che originariamente „L’aggettivo latino prŏbābĭlis ha il significato di attendibile, nel senso che è in grado di imporsi alla nostra attenzione come convincente, o credibile, o verosimile.“ Con la rivoluzione scientifica il suo significato però muta „La probabilità di un’opinione dipende sempre meno dall’autorevolezza di chi l’ha espressa” e sempre più da elementi „basati sul vaglio della ragione e dell’evidenza empirica“. Locke e Leibniz, perennemente in disaccordo, concordano sul fatto che ci siano “due tipi di conoscenze, proprio come ci sono due tipi di prove: le prime producono certezza; le altre conducono solo alla probabilità» Su tale probabilità e sulla possibilità di calcolarla (approssimativamente) si basano le scienze attuali che non ci forniscono granitiche certezze ma opzioni – con relativi effetti e effetti collaterali- tra le quali siamo chiamati, individualmente e collettivamente, a scegliere. Quando ci vengono presentate proposte diverse per costruire una casa, abbattere un albero pericolante, curare una malattia non troppo grave, siamo generalmente capaci, pur con molti limiti (bias), di prendere decisioni ragionevoli. Anche collettivamente, nel caso della pandemia da coronavirus, alcune nazioni hanno puntato quasi esclusivamente sul lockdown, altre prevalentemente sui metodi di contact tracing, altre ancora non hanno imposto restrizioni coattive.
Di fronte ad una minaccia tanto concreta quanto invisibile come quella del COVID-19 si sviluppa però in noi, accanto alla sensazione di incerta sospensione, anche un’insicurezza emozionale che ci fa sentire impotenti, fragili, vulnerabili. È un’insicurezza (psicologica) che deriva dalla perdita del consueto ritmo quotidiano, della normalità, della sicurezza che davamo per scontata e che ci appare ora perduta e difficilmente recuperabile. Questa insicurezza, che, anche a causa delle pesanti ricadute lavorative e finanziarie, può sfociare in stati d’ansia, di panico, depressione, disturbo post traumatico da stress, non trae giovamento dalla sola comprensione razionale dell’incertezza come valore. Ho proposto , in compagnia di ben più rinomati psicoterapeuti (David Kessler ) di interpretare il fenomeno psicologico attuale di perdita della normalità alla luce del processo di lutto e delle sue fasi (rifiuto, rabbia, patteggiamento, afflizione, accettazione, significato). Il concetto di lutto può spaventare ed apparire inappropriato per persone che non abbiano perso un loro caro a causa del COVID-19. Eppure tutti i processi di perdita si sviluppano attraverso tali fasi, che hanno proprio il compito di farci superare, in un percorso dinamico, l’insicurezza e la sofferenza e farci approdare a una condizione di adattamento alla nuova realtà. Non si tratta di un processo semplice e lineare, né concluso una volta per tutte, piuttosto della ripetizione spesso caotica delle diverse fasi, fino a quando la perdita è accettata ed è possibile aprirsi ad un nuovo sviluppo Senza passare attraverso il processo di lutto rischiamo, a mio opinabile avviso, o di arrenderci all’impotenza e alla passività o, dall’altra parte, di negare l’insicurezza, la fragilità, rifugiandoci in un elogio solo intellettuale dell’incertezza.
L’invito alla ragione e alla scienza di Galileo rimane quanto mai valido anche se con un atteggiamento più modesto e consapevole. Oggi ci viene richiesto dalla situazione non di imporre la scienza ma di accettarne i limiti senza per questo ripudiarla e, se lo vogliamo, di accettare anche un aiuto dalla psicologia per superare la perdita. Rilke nelle sue „Lettere a un giovane poeta“ sostiene che proprio attraverso la tristezza entra in noi il nuovo che ci trasforma. “Le tristezze […] sono i momenti, in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto“…„Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo“
Immagine tratta da @IrenaBuzarewicz