Il nazionalismo dei vaccini

„Sa quante persone hanno vaccinato fin’ora in Africa?“ chiedeva l’immunologo Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas, al suo interlocutore nella sua bella intervista a l’Avvenire di qualche giorno fa. „Venticinque “ era la drammatica risposta che il professore emerito si dava, evidenziando lo scandalo etico e sanitario del mancato invio di vaccini ai paesi poveri. Al più tardi quando ho letto queste parole ho ripensato allo scambio Twitter che avevo avuto con il Prof. Carnevale-Maffè sui criteri, ideali e reali, di somministrazione dei vaccini. A me, che da inguaribile Donchisciotte, rivendicavo come unico criterio di distribuzione quello medico, @carloalberto rispondeva amichevolmente „no, la scelta dei vaccini non è solo medica, nei fatti. Perché è tema di public health, ovvero di materia interdisciplinare di cui si fanno carico diverse voci scientifiche e comitati etici. Ne parliamo, relazioni e dati alla mano?“
Nel suo successivo articolo sul @ilfoglio_it lui sosteneva che „trattare un individuo con basso tasso di trasmissione salva una persona per volta, vaccinare un soggetto che fa da veicolo di nuove catene di contagio previene decine, a volte centinaia di potenziali vittime, oltre che ridurre significativamente gli impatti socio-economici della pandemia“. Dopo aver constatato inoltre che „su base globale l’allocazione primaria dei vaccini è già avvenuta sulla base delle risorse economiche dei diversi stati“ invitava a cogliere „l’occasione per aprire una discussione, dati alla mano, sui criteri di allocazione dei vaccini.“
Ci provo, per quel poco che ne sono capace. Prendo spunto da una lettera apparsa sul british medical journal il 28.1.21 a firma di diversi scienziati tra cui John Middleton, President, Association of Schools of Public Health in the European Region.
Vediamo innanzitutto i dati elencati nella lettera: al 14 gennaio „il 95 % delle dosi di vaccino finora somministrate nel mondo era limitato a 10 paesi … (Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna, Israele, Emirati Arabi Uniti, Italia, Russia, Germania, Spagna e Canada)“ Non solo. „Canada, the U.K. and Australia top the list, with enough vaccine doses reserved to cover their populations several times over“ rivela un‘analisi di Bloomberg che peraltro sembra soprattutto preoccupata del fatto che „Thirty-one countries around the globe have reserved more Covid-19 vaccine per capita than the U.S.“ E se non bastasse Winnie Byanyima sul Guardian riferisce che il Sud-Africa “has had to pay more than double the price paid by the European Union for the AstraZeneca vaccine for far fewer doses than it actually needs.”
È dunque palese che, come sosteneva @carloalberto, nei fatti la distribuzione dei vaccini non sta affatto avvenendo sulla base di criteri medici.
Se non si vuole continuare ad accettare questa situazione mondiale obiettivamente ingiusta in cui è il PIL a decidere chi può essere vaccinato e chi no – senza nemmeno che la Moratti debba chiederlo -, quali criteri seguire per cambiarla?
Il criterio cui mi sembra ispirarsi @carloalberto nel suo articolo è quello del dilemma etico proposto dall’esperimento del Trolleybus (o carrello ferroviario) senza freni. Nella “variante dell’uomo grasso un carrello sta viaggiando in direzione di cinque persone impossibilitate a muoversi e l’unico modo per arrestare la sua corsa è spingere sulle rotaie un uomo molto grasso: l’uomo sarebbe condannato a morire investito dal carrello, ma si salverebbe la vita delle altre cinque”. Tramite la somministrazione prioritaria di vaccino al personale sanitario, rischiamo di far aspettare e dunque potenzialmente morire alcune persone anziane, ma consentiamo al personale medico-infermieristico di sopravvivere e di garantire dunque la prosecuzione dell’assistenza sanitaria a tutti e dunque di salvare di molte più vite. Anche personalmente, da medico, posso accettare, pur se a fatica, questo principio di mettermi prima in sicurezza per garantire poi la sicurezza di chi assisto. Ma non mi sembra che questo dilemma ci aiuti a decidere come distribuire il vaccino tra la popolazione mondiale, almeno se vogliamo rispettare i diritti universali che tutti gli esseri umani possiedono in ugual grado. A cosa ispirarsi dunque?
Analizziamo dapprima le motivazioni sanitarie, facilmente comprensibili. Il virus, l’abbiamo constatato tutti, non si ferma alle frontiere e la convinzione di poter mettere in salvo una nazione tramite il nazionalismo dei vaccini è destinata ben presto a rivelarsi un’illusione. Nessuna regione o nazione può considerarsi davvero libera dalla pandemia se tutte le nazioni non sono libere. Il virus continuerà a circolare e soprattutto a mutare, il ché limita potenzialmente l’efficacia degli attuali e futuri vaccini con la conseguente difficoltà di raggiungere con la vaccinazione la tanto sospirata immunità di gregge. Ragion per cui si ripresenterà la necessità di nuovi Lockdown con le disastrose conseguenze economiche che ne seguono. Dal punto di vista sanitario dunque è interesse di tutti che tutti siano vaccinati in tempi brevi.
Decisamente più complesse sono le motivazioni etiche. Il presidente dell‘OMS Tedros riconosce che „i paesi ricchi hanno ragione a volere che le loro popolazioni vulnerabili e anziane siano vaccinate, ma si interroga sul perché dovrebbero procedere a vaccinare gruppi a bassa priorità in un momento in cui molti paesi in tutto il mondo non possono vaccinare nemmeno i gruppi prioritari. Propone che i paesi ricchi condividano le loro scorte per consentire una copertura più equa dei gruppi ad alto rischio in tutto il mondo… in modo che nei primi cento giorni dell’anno si compia la vaccinazione del personale sanitario e degli anziani in tutte le nazioni”. Al di là dei nobili intenti – che si addicono più ai gesti di S. Martino o di S. Francesco che non all’operato di una tutt’altro che perfetta organizzazione umana – quali sono le motivazioni razionali di una simile scelta di fondo?
Qualora prevalesse la logica perversa del “nazionalismo dei vaccini” e la loro distribuzione avvenisse, ancora una volta, sulla base del profitto economico, i vaccini – sostiene il presidente dell’OMS – andrebbero a costituire “un altro mattone nel muro della disuguaglianza tra i ricchi e i poveri del mondo”. Il mondo – avverte Tedros – si trova sull’orlo di un catastrofico fallimento morale – e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con vite e mezzi di sussistenza nei paesi più poveri del mondo”. Possono sembrare le parole apocalittiche di un predicatore sull’orlo della personale disperazione – dopo aver fallito nella sua missione impossibile di medico di preservare il mondo dalla pandemia. Forse lo sono. D’altro canto considerazioni assai simili, anche se molto più approfondite, elaborate e sistematizzate, vengono espresse anche nell’Interim Framework for COVID19 Vaccine Allocation and Distribution in the United Staates 
Ma proviamo a domandarci come sarà il mondo se la “cura” principale della pandemia, il vaccino, messoci a disposizione dalla scienza in meno di un anno dallo scoppio della pandemia, dividerà gli esseri umani in 1, 2, 3… classe? Che senso avrebbe ora riflettere sulle trasformazioni digitali, economiche, lavorative, formative, culturali che la pandemia ha indotto? Che significato potrebbe avere parlare di Recovery Plan, di una nuova sensibilità ambientale, di innovazione e sostenibilità se il primo atto della rinascita fosse segnato dalle stesse logiche di ingiustizia che proprio in questo anno, con l’improvvisa sensibilità riflessiva indotta in noi dal lockdown, abbiamo giudicato superate? Tutti i nostri bei propositi di equità, sostenibilità, solidarietà elaborati in interminabili sedute online svaniscono dunque di fronte ad una fiala di vaccino che non vogliamo condividere con gli altri, perché noi e i nostri cari veniamo “prima”? Non solo prima degli africani, degli europei dell’est, ma degli stessi italiani, dei vicini, del personale sanitario, degli amici, forse anche dei nostri familiari. Le solite perverse fantasie psicologiche e psicoanalitiche? No, secondo i dati GIMBE il 51% delle dosi di vaccino in Lombardia è stata somministrata a personale “non sanitario” che ha dunque ritenuto di venire prima di quelli che un anno fa erano stati acclamati come eroi nazionali. Non c’è in realtà nulla di nuovo nella constatazione di questo nazionalismo ed individualismo dei vaccini. Non siamo padroni dei nostri istinti egoisti nemmeno nella normalità, figuriamoci nel panico di una pandemia. Lo sappiamo da sempre anche se fatichiamo ad ammetterlo, ce lo ricordano da tempo immemorabile i grandi moralisti, l’ha capito e sfruttato l’economia, ce l’ha spiegato Freud, che – pur avendo costantemente lottato per affermare e diffondere l’opera della sua vita, la psicoanalisi, ritenendola innovativo metodo di trasformazione individuale e collettiva – nel suo Il disagio della civiltà, scrive “forse ci abitueremo anche all’idea che ci sono difficoltà inerenti all’essenza stessa della civiltà e che esse resisteranno di fronte a qualsiasi tentativo di riforma?”
Forse ci abitueremo, sì, e racconteremo ai nostri nipoti abituati nel frattempo a convivere con il COVID che la distribuzione dei vaccini non dipendeva da noi, ma da un tal Arcuri, che in Africa non c’erano i congelatori per poter conservare e distribuire i vaccini, che in fin dei conti a pagare le case farmaceutiche eravamo noi, e racconteremo pure che non potevamo fare niente per i migranti ai confini croati come i nostri nonni ci hanno raccontato che non si poteva fare niente per gli ebrei deportati….
Forse invece riusciremo a ritrovare la speranza, la “passione del possibile” come dice Kierkegaard, o, come dice Borgna “un ponte che che ci fa uscire dalla solitudine, e ci mette in una relazione senza fine con gli altri, con gli altri che hanno bisogno di un aiuto” e magari di un vaccino.
Immagine tratta da @IrenaBuzarewicz
Suggerento musicale a cura di @marcoganassin John Coltrane Africa