Stiamo languendo?

Alla consueta domanda quotidiana rivoltaci, non sempre invero con sincero interesse, da amici/che e colleghi/e “come stai?” molti di noi potrebbero quest’anno rispondere, se fossero più sinceri dei loro interlocutori, “sto languendo”? Cioè non sono depresso ma provo un senso di stagnazione e di vuoto che smorza il mio entusiasmo, vela i miei sensi e attenua la mia capacità di concentrazione. Lo sostiene, in un articolo sul NYT del 19 aprile scorso, Adam Grant, uno psicologo delle organizzazioni, che ha a sua volta mutuato il concetto di languish da un sociologo Corey L. M. Keyes  autore di studi su quella che potrebbe essere l’emozione dominante del 2021, appunto il languish. Le ricerche  di Keyes suggeriscono, come indicato anche nell’articolo del NYT, che “le persone che hanno maggiori probabilità di soffrire di depressione maggiore e disturbi d’ansia nel prossimo decennio non sono quelle con quei sintomi oggi. Sono le persone che stanno languendo in questo momento. E nuovi dati relativi agli operatori sanitari in fase di pandemia in Italia mostrano che coloro che stavano languendo nella primavera del 2020 avevano una probabilità tre volte maggiore rispetto ai loro coetanei di essere diagnosticati con disturbo da stress post-traumatico.”
Prevengo subito legittime obiezioni. Non si tratta qui di più o meno riusciti giochi di parole di psicologici, psichiatri e psicoterapeuti. Ma di dar un nome, il più possibile corretto e appropriato, a un disagio reale, obiettivato da molteplici studi nazionali e internazionali, per consentire di comprenderlo e di risolverlo. È un disagio psichico che, come la pandemia, ha colpito tutto il mondo e si è manifestato anche con un incremento significativo di disturbi psichici quali ansie, depressioni e disturbi post-traumatici da stress. Lo testimoniano tra l’altro per l’Italia i dati raccolti e da poco pubblicati del 33’ rapporto Eurispes 

L’ Aifa (Agenzia italiana del farmaco) sull’acquisto di farmaci in Italia in corrispondenza con l’emergenza sanitaria registra un notevole aumento rispetto al 2019 nel consumo di ansiolitici. È stato anche rilevato, a marzo 2020, un incremento del consumo di antipsicotici. Il 20% della popolazione avrebbe sperimentato sintomi depressivi nel corso della pandemia (un’incidenza doppia rispetto al periodo precedente) e sarebbero aumentati ansia e disturbi del sonno.
Quasi un italiano su 5 (19%) ha assunto, nell’ultimo anno, farmaci come ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici, cioè i principali tipi di psicofarmaci. Gli ansiolitici ed i tranquillanti sono gli psicofarmaci più diffusi.
Rilevante la quota di chi si è rivolto ad uno psicologo: più di un quarto del campione (27,2%). Ad uno psichiatra si è rivolto il 5,6% degli intervistati.

Molto interessanti e orientati nella stessa direzione sono anche i dati raccolti dall’ordine nazionale degli psicologi ( cap. 7) relativi al vissuto del lockdown nella primavera 2020, il ricorso allo psicologo in quei mesi e in quelli successivi, la preoccupazione sulle prospettive future, etc.
Ancora più preoccupanti i dati relativi al disagio e ai disturbi psichici di bambini/e e adolescenti, come avevo già evidenziato in La sofferenza nascosta degli adolescenti
A fronte di dati così lampanti e significativi, una ragionata preoccupazione – nel senso etimologico di pensarci prima, prevenire – è legittima e doverosa. Titoli sensazionalistici di mass media e social media vanno certo evitati perché innalzano l’ansia e addirittura il rischio di emulazione nel caso dei suicidi. Prendersela però con giornali e giornalisti come se il problema lo creassero loro è soluzione peggior del male, perché aumenta il rischio, già di per sé latente quando si parla di salute mentale, di banalizzare e rimuovere un disagio che è invece reale e grava su persone che faticano ad aiutarsi da sole ma anche a chiedere aiuto. Ho provato a descrivere qualche aspetto di tale dolorosa quotidiana sofferenza con alcuni esempi concreti in Storie di ordinaria sofferenza e ho lanciato qualche proposta per favorire una precoce diagnosi e terapia delle persone che soffrono di disagio psichico a maggior ragione in considerazione del fatto, rilevato anche dall’Eurispes, che “il Sistema sanitario nazionale continua ad investire poco nell’assistenza psicologica”
Consapevoli che la sofferenza psichica si manifesta lungo un continuum che va da un leggero disagio fino ai disturbi più gravi, possiamo allora riassumere in un sistema a più livelli tutti i dati relativi al disagio da pandemia, sia quelli provenienti dagli studi di Keyes sulla condizione di languish, sia quelli derivanti dalle ricerche internazionali sull’incidenza dei disturbi psichici, quelli dell ENPAP e ancora quelli clinici di tutti gli psichiatri, che, come me, si trovano da dicembre 20 a fronteggiare un incremento di consultazioni mai! sperimentato prima ( tanto che la società svizzera di psichiatria e psicoterapia ha inviato a tutti i membri un questionario per la valutazione quantitativa dell’aumento di carico lavorativo).
Il primo livello, è quello del disagio psichico che quasi tutti, anche se non tutti, abbiamo percepito e in parte continuiamo a percepire. Per fortuna si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di una sofferenza lieve e transitoria che i nostri meccanismi di difesa psichici possono riuscire a fronteggiare e gestire. Per favorire l’elaborazione della sofferenza e accelerarne la risoluzione è tuttavia importante e utile sapere cosa ci sta succedendo. All’inizio della pandemia i concetti di lutto anticipato e di fasi del lutto, descritti in un articolo divenuto virale e che ha ispirato anche le mie riflessioni, hanno aiutato molti di noi a comprendere cosa stava succedendo nella nostra psiche, in quale fase ci trovavamo e cosa poteva aiutarci a superarla. Ora il concetto di languish può aiutarci a capire che la famosa ripartenza non possiamo imporcela con la sola volontà, come il coraggio di Don Abbondio. Prima dobbiamo avere la forza e la pazienza! di superare il provvisorio disorientamento in cui ancora, parzialmente, ci troviamo senza lasciarcene impressionare ma anche senza negarlo.
Al secondo livello si pone la sofferenza di chi si sente insicuro, incerto se sarà capace nel presente o nel futuro di gestire lo stress derivante dalla perdita di normalità, dai ripetuti cambiamenti, dall’incertezza etc. In questi casi la consultazione occasionale o ripetuta del medico di medicina generale, di uno psicologo o di uno psicoterapeuta può essere di grande aiuto per superare le difficoltà e l’insicurezza e avviarsi verso un nuovo anche se imprevedibile cammino.
Ad un livello di sofferenza ancora maggiore vi sono poi i disturbi psichici caratterizzati da precisi sintomi clinici che necessitano di una presa a carico specialistica e dunque di una psicoterapia affiancata o meno da una terapia farmacologica. Non posso che ribadire al riguardo la mia proposta perché si giunga ad una assicurazione psicoterapeutica privata per coprire gli ingenti costi di una psicoterapia spesso prolungata nel tempo.
Quale che sia il livello del disagio psichico è fondamentale non banalizzarlo, non pretendere da noi stessi di farcela sempre. Giunge per ognuno di noi il momento in cui da soli non ce la facciamo! Comprenderlo e accettare l’aiuto è un segno di intelligenza non di debolezza. Siamo fragili, un po’ meno se ci aiutiamo e ci facciamo aiutare.
Immagine tratta da @IrenaBuzarewicz
Suggerimento musicale: Auguste Franchomme, Nocturne for Cello and Piano Op 14, No 1