“Il dottore ha detto che la malattia era stata una bufera, in quella stanza, una stanza di isolamento esposta all’aria pungente di montagna, una tormenta che si abbatte di colpo, scoperchia i tetti, spalanca porte e finestre [….] ora nella stanza tutto è fuori posto, i cassetti sono stati rovesciati: i ricordi, le abitudini, l’ordinario e lo straordinario, il superfluo e l’ indispensabile, i progetti, la vita futura e quella passata, tutto è a terra. […] non posso abitare quella stanza come prima, ma posso mettere ordine nei pezzi che la bufera ha spazzato a terra. Non posso spostare l’asse del tempo e riportarlo indietro, ma posso provare a non essere schiacciata dal passato e dal futuro.”
Così scrive Francesca Mannocchi nel suo romanzo Bianco è il colore del danno, in cui, implacabile, si racconta e ci racconta di quella bufera che l’ha colpita a 39 anni, a pochi mesi di distanza dal parto, e che nella lingua della medicina si chiama sclerosi multipla (recidivante ricorrente). Se è vero che, come scrive la protagonista in un altro passo, “la lingua medica è distante” e pur essendo “prossima alla malattia […] non le è fedele”, “forse assolve la stessa funzione della mielina: è una guaina, protegge. La mielina [che viene appunto intaccata e lesa dalla sclerosi multipla n.d.r] protegge i nervi, la lingua medica protegge i pazienti mitigando le informazioni”.
Ma Francesca Mannocchi non cerca protezione e lenimento, non fugge dalla verità che bussa alla sua “parete”, pur consapevole che, come nell’amata poesia di Ingeborg Bachmann, la verità è “avvinghiata da un enorme serpente a sonagli”. L’autrice insegue incessantemente la sua verità interiore, cerca di ricostruirla con appassionata acribia. Nella ricerca paziente ed impaziente ad un tempo della verità, crea una lingua propria, scarna e poliedrica che ne è metodo e premessa. Con la consapevolezza che, come scrive ancora la sua amata Bachmann, “ovunque ci volgiamo nella bufera di rose, la notte è illuminata di spine”.
Queste spine, che non sono state risparmiate nella vita né a lei né ai suoi genitori e a suoi nonni, illuminano anche la prosa di Francesca Mannocchi quando ci racconta del suo rapporto con la malattia, i suoi genitori, i suoi nonni, suo figlio.
La sclerosi multipla è “una malattia potenzialmente debilitante del cervello e del midollo spinale” laddove, scrive l’autrice, “la parola chiave è potenziale”. “ Il peggioramento è potenziale, la stabilità è potenziale. L’immobilità è potenziale, la cecità lo è”. “Dunque -aggiunge l’autrice- dal primo giorno, ho stabilito che anche la paura sarebbe stata potenziale”. Non per questo l’autrice/paziente smette di avere paura, paura “di essere guardata con pietà”, […] che il sistema sanitario collassi e non ci siano più terapie per le malattie croniche, […] di non sentire più sui polpastrelli lo spessore della carta dei libri, […] di dover chiedere a qualcuno in stazione se mi aiuta a salire sul treno […] che mio figlio veda nella malattia una colpa e non un caso”.
Ma Francesca Mannocchi non rinuncia a scavare, indagare, ricercare per conoscere e sapere. “Quando sei malato vuoi sapere da dove arriva la tua malattia, ricostruirne l’albero genealogico, trovarne le tracce in un pezzo di storia della tua genia: anche i morbi hanno una storia, anche i morbi tengono famiglia”.
E la malattia ha sempre camminato vicino alla sua famiglia e ha preso di volta in volta forme diverse, nel nonno quella della cardiopatia, nella nonna quella dell’osteomielite, nel padre dell’incidente.
Dunque l’autrice, in un’immaginaria ellissi temporale, interroga la madre e le chiede “Cos’è per te la malattia, mamma?” Sua madre risponde:” Avevo poco più di vent’anni quando mio padre è morto e mi sentivo ancora figlia anche se tu eri nata già da qualche mese. Famiglia e malattia sono state a lungo una cosa sola nella mia testa. Mia madre- tua nonna – era spesso assente, c’era sempre un malato da accudire”.
Al padre la scrittrice non pone domande, constata, amaramente, la sua paura, le sue rinunce, i sabotaggi (involontari) che lui ha provocato e lei tira le conclusioni: “i miei traguardi raggiunti erano i suoi traguardi mancati. Io tagliavo la linea d’arrivo e lui mi guardava dai suoi banchi di partenza che non aveva potuto abbandonare”. Ancora “I rapporti sono stati per lui un braccio di ferro tra punizioni e ricompense. Il denaro è stato unità di misura delle cose. Il lavoro è stato l’unità di misura del tempo.”
La nonna materna della scrittrice, alla cui memoria, oltre che ai genitori, il libro è dedicato, è stata – afferma la scrittrice – “inconsapevolmente la [sua] educazione politica”, le parole di sua nonna sono diventate per lei un codice di condotta. “Se aiuti, ti aiuteranno” è l’insegnamento principale di quest’etica fatta di silenzioso sacrificio e altrettanto discreto rispetto.
Ma è il figlio con il quale la scrittrice ingaggia, prima della malattia, la lotta più serrata. Lui è “insieme parete, verità e serpente” e le insegna la “cura segreta di ciò che si ripete, dei giorni tutti uguali, la cura di restare che a volte pare prigione e a tratti lo è”. La gravidanza ha rappresentato per l’autrice la prima (seconda?) perdita di controllo del suo corpo a favore di una nuova vita con la quale si instaura una reciproca dipendenza, che fa nascere e crescere non solo il figlio ma anche la madre poiché “quando nasce un figlio non è detto che nasca anche una madre”.
Quando, poco dopo, arriva anche la malattia a privare l’autrice/paziente di tempo, libertà, salute, attività, l’impatto è appunto quello di una sconvolgente bufera. Ma Francesca Mannocchi, come sua nonna Rita, non si lamenta. A colloquio con il dottore, che ha accompagnato la sua famiglia, dice
“ – Piangere no, dottore, lo sa
– Impara a cedere, Francesca, a chiedere aiuto.
– Cos’è l’aiuto, dottore?
– La lucidità che hai è l’aiuto
– La lucidità è la ferita più prossima al sole”
Eppure Francesca Mannocchi, se pur non riesce forse a piangere, certo riesce faticosamente, nel tempo, ad accettare l’aiuto e ad offrirlo a tutti noi.
“In questi anni ho imparato che per mantenersi in equilibrio con l’infedeltà del corpo [e io mi permetterei di aggiungere, della psiche] provare a perdonarla, e accettare la malattia, si attraversano varie fasi.
Bisogna attraversare il rifiuto e la collera, scendere a patti con l’ingiustizia, addentrarsi in una depressione cupa, e poi, se il pieno delle tappe precedenti si è svuotato, la persona può accettarsi per quella che è, o meglio per quella che è ormai: malata”
Immagine: Giacomo Bergami, dal catalogo dell’esposizione del pittore a Comezzano- Cizzago
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