Nelle ultime settimane in Italia si è parlato e scritto di salute mentale più del solito niente. Non è poco. Credo sia importante continuare a parlarne, al di là delle contingenze del momento e dei pareri sul bonus psicologico. È legittimo sospettare che io lo faccia pro domo mea, per interesse personale, di categoria, di parte. In fin dei conti è così. Mi occupo di sofferenza psichica, mia e altrui, da una vita. Mi ricordo ancora come se fosse oggi la prima giovane paziente affetta da schizofrenia che ho visitato nel pronto soccorso della Clinica in cui cominciai a prestare servizio come medico assistente. Paralizzata dall’angoscia e dalla diffidenza, vedeva e sentiva pericoli ovunque. Non meno paralizzato dalla mia inesperienza, intavolai con lei un’interminabile trattativa sul farmaco che non portò a nulla. Alla fine arrivò l‘Aiuto (quello che ora si chiama, credo, dirigente di non so che fascia) che liberò me e il pronto soccorso e dispose il ricovero coatto della paziente nel Servizio di Diagnosi e Cura della mia città. In quel momento capii che non volevo più occuparmi delle lamentele nevrotiche dei pazienti ciclicamente ricoverati in clinica. Con l’entusiasmo e il narcisismo dei 20 anni, volevo conoscere e curare i pazienti psichiatrici per antonomasia, quelli affetti da schizofrenia e da altri disturbi mentali gravi. Andai a lavorare al Servizio di Diagnosi e Cura, la cui metratura era a stento sufficiente per i 15 pazienti previsti, solo che i degenti erano generalmente 30. Se poi i metri cubi avessero dovuto contenere anche solo una piccola parte della sofferenza dei pazienti, lì ricoverati per una degenza media di nove giorni nove, non sarebbe bastato il Colosseo. Mi trovai a tu per tu con chi sperava gli spuntassero le ali, chi aveva ucciso il padre, chi aveva perso la madre, il partner, il figlio, la voglia di vivere, la speranza di morire. Per cercare di capire quello che ascoltavo e che facevo leggevo i libri di Borgna e le poesie di Campana, che peraltro non capivo, come probabilmente non capivo me stesso. Poi conobbi i “matti” svizzeri, le cliniche immerse nel verde di un’inquietante quiete. Qui era tutto ordinato e lindo ma la sofferenza che traspariva da quei volti e che si esprimeva in parole inizialmente per me così ostiche non era poi così diversa da quella italiana. Certo io inizialmente faticavo a distinguere un paziente con una depressione di grado lieve da quello con una depressione di grado medio, perché mi sembrava che tutti gli svizzeri, fuori o dentro la Clinica, fossero tristi. Poi ho cominciato a riconoscere anche le sfumature svizzero-tedesche del malessere psichico, la perdita dell’autonomia come male supremo, il frequente ricorso alla “libera morte”, la dipendenza da sostanze, dal lavoro, dal prestigio. Ho cercato nella formazione psicoanalitica lo strumento per capire cosa (non) accadeva nei miei colloqui con i pazienti e nell’analisi un mezzo per capire me e la mia scelta (nevrotica, come mi ricordava sempre il mio Aiuto a Brescia) di voler guarire i pazienti a fronte della mia difficoltà di vivere. Se in più il medico – come ha scritto Balint – è la medicina, il terapeuta la terapia, quanto più importante è che si conosca, sappia che medicina è, che effetti, desiderati ed indesiderati, ha. Con i gruppi Balint ho avuto la speranza di comprendere cosa si può inceppare nel rapporto terapeuta paziente quando i sentimenti dell’uno si aggrovigliano a quelli dell’altro. Ora cerco di farlo capire agli e alle assistenti che, come tante volte è capitato e tutt’ora capita a me, faticano a distinguere tra l’immagine propria e quella del paziente.
In tutti questi anni a stretto contatto con la sofferenza ho talvolta faticato a condividere il dolore di chi perde un figlio, magari per suicidio, di chi deve abbandonare la sua vita precedente e si trova a fare i conti con una malattia che non gli lascia tregua, sono stato a volte impaziente ed arrogante, ho fatto errori ed in alcuni casi ho miseramente fallito. Ho sperimentato però le difficoltà maggiori quando la sofferenza viene negata, banalizzata, irrisa o al contrario viene considerata inguaribile, un destino biologico, una pena o addirittura una colpa da scontare.
Nel frattempo la psichiatria e la psicoterapia si sono per fortuna (un po’) evolute. Anche la psicoanalisi è diventata, finalmente, scientifica soprattutto grazie all’osservazione diretta del rapporto madre-bambino e alla teoria dell’attaccamento che ne è derivata. È ormai scientificamente dimostrato che l’attaccamento sicuro (cioè adeguato e sensibile) tra madre e baby favorisce in modo significativo la regolazione delle emozioni e dell’attenzione consentendo così l’instaurarsi di una funzione riflessiva solida per tutta la vita, anche nelle condizioni di maggior stress emotivo. Ora la terapia basata sulla mentalizzazione promette, sulla scorta di evidenze sperimentali, di aiutare il paziente stesso a regolare le proprie emozioni, a comprendere cosa avviene nella propria testa e in quella altrui, rimediando in parte ai disturbi delle prime interazioni madre-bambino.
È proprio nell’ infanzia che si gioca la partita decisiva per la salute mentale. Ognuno di noi nasce infatti con un’incapacità di regolare le proprie emozioni. È nella relazione di attaccamento al nostro iniziale caregiver, generalmente la madre, che le emozioni trovano forma e regolazione consentendoci di formare un’immagine più o meno adeguata di noi e dell’altro (mentalizzazione) e di porre le premesse per una buona integrazione sociale. Un’attaccamento insicuro madre bambino conduce ad alterazioni della regolazione emozionale che si traducono poi in disturbi comportamentali e relazionali.
Non a caso la maggior parte dei disturbi mentali si manifesta prima dell’età adulta, il 50% all’età di 14 anni mentre il 45% del carico globale di malattie per le persone di età compresa tra 10 e 24 anni è dovuto a disturbi mentali. Inoltre eventi stressanti negativi dell’infanzia inclusi maltrattamenti, abusi e bullismo, sono responsabili almeno del 30% dei disturbi mentali degli adulti. Eventi stressanti negativi infantili sono molto più comuni di quanto si pensi: più della metà di tutti i bambini di età compresa tra 2 e 17 anni (1 miliardo di bambini nel mondo) ha subito violenza emotiva, fisica o sessuale nell’anno precedente. Un recentissimo articolo di Lancet Psychiatry, che è anche un invito all‘azione nel campo della salute mentale pubblica, riassume molto bene il carico della sofferenza psichica e l‘enorme mole di lavoro che ancora rimane da fare per lenirla. Per questo credo sia un bene che si parli un po‘ più del solito di salute mentale. Anzi di sofferenza psichica. Quella che, ognuno a suo modo, porta con sé.
Immagine: tratta da @IrenaBuzarewicz