Guerra tra empatia e teoria dei giochi

“Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?” chiedeva Einstein a Freud nel noto carteggio sul tema.
Credo ognuno di noi si ponga una simile domanda in questi giorni in cui, mentre la pandemia sembra lasciarci una tregua, una guerra sembra possibile o addirittura imminente in Europa. Il Prof. Carlo Alberto Carnevale-Maffè facendo riferimento “al dilemma tra Jung e Von Clausewitz / Nash” chiedeva ieri su Twitter se “La guerra si può fermare con l’empatia? O è più razionale riferirsi alla teoria dei giochi?”
Sicuramente è auspicabile e assai probabile che Biden e i leader europei o i loro consulenti siano ferrati in teoria dei giochi, anche se o proprio perché Putin sembra poco incline alla ricerca di un equilibrio di Nash e piuttosto interessato ad attuare una strategia dominante, senza troppo curarsi del comportamento dei suoi avversari esterni, forse più preoccupato di quelli interni. (Interessante da questo punto di vista la valutazione di Adam Michnik  „al Cremlino, non resta che il cupo slancio del continuo decadimento. È come una bicicletta, che deve andare avanti per rimanere in piedi“).
Certo di fronte ad una minaccia di guerra tanto incombente l’empatia sembra avere lo stesso valore del due di bastoni quando briscola è spade. Ma forse vale anche la pena di fare chiarezza su un concetto tanto citato quanto frainteso ed abusato. Negli affrettati peana nazionali all’empatia si ha spesso la sensazione che questo concetto (non a caso espresso con l’emoticon ❤️‍) sia il parente scientificamente presentabile di un’ altra emozione assai diversa la compassione, tale per cui „poverino/a bisogna capirlo/a“ (per non parlare del pendant giudiziario riassunto nella classica domanda sul perdono al parente della vittima appena trucidata). L’empatia è in realtà la capacità di identificarsi con un altro, la capacità di distanziarsi da tale identificazione e ancora la capacità di oscillare tra queste due funzioni. Essa comprende sia una componente emozionale (mettersi emozionalmente nei panni dell’altro in modo spontaneo) che una dimensione cognitiva (sforzarsi di capire, in modo razionale e controllato ) cosa l‘altro esprime e comunica. Un concetto simile ma non identico è quello, sempre più impiegato in psicoterapia, della mentalizzazione, della riflessione cioè sul comportamento proprio ed altrui per comprendere da quali pensieri, emozioni, desideri esso derivi. Con il termine di mentalizzazione infatti Peter Fonagy e Antony Bateman (2006) indicano un‘ attività mentale immaginativa che porta a percepire ed interpretare i comportamenti propri ed altrui come il risultato di stati mentali interni ed intenzionali, e cioè appunto come il risultato di desideri, credenze, aspettative, bisogni, obiettivi e sentimenti. In altre parole mentalizzare può essere definito come quella facoltà che permette di vedere se stessi “dall’esterno” e gli altri “dall’interno”.
Secondo i più recenti studi di neuro-Imaging funzionale (RMIf) tre sistemi neuronali sarebbero sarebbero responsabili dei processi di mentalizzazione (Martin Debbané, Mentalizzazione Dalla teoria alla pratica clinica): il sistema limbico, il sistema dei neuroni specchio e il sistema di mentalising nel senso cognitivo del termine. Il sistema limbico, (amigdala, talamo, ipotalamo e altri centri) che condividiamo con i mammiferi, è il sistema di produzione ed elaborazione per eccellenza delle nostre emozioni, importantissimi segnali che ci informano in modo velocissimo ma non sempre accurato su cosa succede dentro e fuori di noi. Il sistema dei neuroni specchio (regioni frontali e parietali laterali, regioni mediali e insula) sarebbe responsabile della simulazione automatica che scatta alla semplice vista di un movimento o di un’espressione dell‘altro da cui è percepibile un’intenzione. Si tratta dunque di un sistema che ci consente di comprendere e attribuire spontaneamente, automaticamente all’altro emozioni e intenzioni. Peraltro la funzione principale del sistema dei neuroni specchio sarebbe in riferimento ai processi incarnati del riconoscimento di sé (embodied emotion). Infine il sistema del mentalising cognitivo (corteccia prefrontale mediale e giunzioni temporo-parietali) riunisce le aree cerebrali destinate soprattutto al trattamento dell’informazione astratta e simbolica riguardante gli stati mentali di sé e degli altri.
Riassumendo, possiamo dire che noi umani abbiamo a disposizione diversi sistemi per comprendere cosa succede dentro di noi e dentro gli altri e valutare dunque il significato del comportamento nostro e altrui. Tali sistemi si muovono in un continuum che va dalle emozioni più fisiche ai pensieri più astratti, dall‘affettività alla cognizione che ne rappresentano i due poli. „L’integrazione della polarità cognitiva e affettiva di potrebbe tradurre nell‘espressione „sentire ciò che si comprende“ (Dabbané) che è poi il fulcro della mentalizzazione. Nei momenti infatti in cui la comprensione incontra l’emozione, il soggetto va incontro ad un’esperienza (chiamata da Balint flash) che generalmente comporta un’improvvisa apertura di campo, un nuovo modo di vedere le cose.
Torno al drammatico tema di partenza, la guerra o meglio ancora come prevenirla, scongiurarla. Alla luce delle evidenze scientifiche sulla continuità tra emozioni e pensieri, affetti e cognizione nella comprensione di noi stessi e degli altri, credo sia utile superare la contrapposizione tra empatia da un lato, precipita come puro sentire e teorie dei giochi o altro, espressione di razionalità, dall‘altra. È piuttosto l’integrazione tra comprensione cognitiva e comprensione affettiva ad offrire le migliori possibilità di capire noi stessi, l’antagonista, le sue mosse e la situazione in cui ci dibattiamo. Può sembrare molto poco rispetto al potere delle armi. Ma è anche tutto quello che abbiamo e dobbiamo sfruttarlo al meglio.
Anche Freud nella sua risposta ad Einstein riconosce la povertà dei nostri mezzi, ma afferma anche con forza la necessità di non arrendersi. In chiusura della sua lettera, osserva
“Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Immagine: Carteggio Einstein-Freud, Perché la guerra?