La neve del cambiamento

Mi hanno molto colpito le immagini dei funerali della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh uccisa nel corso dei recenti scontri a fuoco tra palestinesi e israeliani. Nei video diffusi in questi giorni si vede la polizia israeliana manganellare le persone intente a portare il feretro della giornalista al punto da provocarne quasi la caduta. Anche se le cose sono probabilmente più complesse di come appaiono nei pochi secondi di un filmato – un articolo del Washington Post rivela che il feretro sarebbe stato precedentemente sottratto dalla folla alla sua famiglia che voleva caricarlo su un carro funebre – quelle immagini continuano a rimanere impresse nella mia memoria quale esempio di una violenza disumana proprio perché inutile e priva di ogni senso di pietas nei confronti di chi in assoluto non può più difendersi, una morta. Certo la realtà presente e passata ci ha abituato a violenze simili e ancora più gravi. Guerre, disuguaglianze, arbitri, abusi e violenze di ogni genere sono vecchie quanto l’uomo e la recente guerra in Ucraina, anche se più vicina a noi geograficamente e culturalmente, non è purtroppo né la prima né, temo, l’ultima. Vi sono tuttavia momenti in cui siamo particolarmente sensibili alla violenza e alle sue rappresentazioni. Ciò può in parte derivare dalla situazione sociale contingente quale quella in cui ci troviamo attualmente, dopo due anni di pandemia, lo scoppio della guerra in Ucraina, la prospettiva di sempre più funeste conseguenze sia energetiche che alimentari soprattutto per le fasce più povere della popolazione mondiale. Ma la reazione alla (rappresentazione della) violenza dipende certo anche dall’intensità ed immediatezza con cui queste immagini vengono veicolate. Mass media e social media sono da questo punto di vista uno strumento essenziale. Il risultato può essere però ambivalente. I social media ci possono indurre a guardare in faccia la violenza che ci circonda ma possono anche provocare in noi l’effetto contrario. Giunti a saturazione, possiamo volgere lo sguardo da un’altra parte, oppure schierarci per una parte oppure per l’altra, nasconderci dietro comodi slogan evitando così di confrontarci davvero con la violenza che alberga anche in noi. Ma la reazione alla violenza e alla sua rappresentazione dipende ancora più profondamente dalla risonanza che essa suscita in noi dunque dallo stato d’animo in cui ci troviamo e naturalmente dalle nostre precedenti esperienze, dai nostri vissuti. Ciascuno di noi ha fatto purtroppo esperienza di violenza anche se in forme e gradi molto diversi. Anche tra coloro che hanno vissuto violenze estreme però solo una minoranza (circa un terzo) sviluppa, per fortuna, disturbi psichici, a dimostrazione che l’elaborazione del trauma, della violenza e a maggior ragione delle comuni perdite e delle sofferenze che la vita ci riserva, pur se difficile e dipendente da svariati fattori, è possibile. «La libertà è ciò che fai con quello che ti è stato fatto» scriveva Jean Paul Sartre. Il ché non è e non può mai essere un atto d’accusa per coloro che, per un motivo o per l’altro, mai fino in fondo snodabili, non ce l’hanno fatta ad uscire dal circolo vizioso della violenza o del dolore subito e dell’impotenza che ne deriva. Come accade a Wanda la protagonista di La vicina gentile (Aurelia Rossi, Il Rio, Mantova 2020) che dopo la diagnosi accetta una terapia ma poi, progressivamente, si sottrae alle cure del terapeuta per concedersi invece alle cure di familiari e amici, “risucchiati – come scrive Luigi Tonoli – verso di lei, mossi, ciascuno, da proprie motivazioni: insofferenza, desiderio di distrazione, curiosità” o addirittura da un malinteso amore come accade ad Arianna che giunge a pregare Dio perché mantenga Wanda in uno stato di bisogno.
Tutt’altro è quello che fa con quello che le è stato fatto Giacomina, la protagonista di La neve di primavera (Maria Rita Milesi, Bertoni Editore, Chiugiana, 2020). “Rimasta vedova ch’era poco più d’una bambina”, Giacomina pareva “fosse rimasta fanciulla, tant’è che conservava il garbo e l’innocenza di allora”. “Il rimpianto e il dolore non avevano indurito il [suo] animo”. Non finiva mai di stupirsi, d’un pappo di soffione sul sui balconcino, d’un passero posato sulla ringhiera, dell’ andare e venire delle stagioni. Coglieva ciò che è invisibile ai più”. Convinta che il nervosismo che aleggiava all’inizio della primavera nella sua città fosse dovuto alla mancanza della neve, Giacomina crea la neve sul suo balcone con la schiuma da barba, venendo subito imitata dai bambini dei suoi vicini, e poi da altri vicini e bambini fino a che fare la neve con la schiuma da barba divenne travolgente per tutta la città: “ la luna e i lampioni con i loro raggi luminosi, accendevano di riflessi azzurrini il manto bianco che avvolgeva la città; i rumori erano ovattati, l’aria profumava di mentolo ed eucaliptolo come all’alba la bruma silvestre, sospesa sui boschi pregni di rugiada.”
Certo è una favola e sarebbe tragica e violenta ipocrisia farla passare per realtà. L’innocenza diviene violenza se abusata al fine di manipolare la realtà. Nessuna neve può nascondere la violenza, che deve essere invece svelata e combattuta, sempre e dovunque, anche se siamo stanchi e abbattuti sotto il peso di pandemia, guerre, inquinamento ambientale e catastrofi alimentari. Ma possiamo fare qualcosa con quello che ci è stato fatto.
Come scrive Maria Popova, recensendo un altro libro, intessuto di tenerezza e di dolore, Things to Look Forward to: 52 Large and Small Joys for Today and Every Day di Sophie Blackall
“You can relish a rainbow and a cup of tea, sunrise and a flock of birds, a cemetery walk and a friend’s newborn, the first blush of wildflowers in a patch of dirt and the looping rapture of an old favorite song. You can’t tidy up the White House, but you can tidy up that neglected messy corner of your home; you can’t mend a world, but you can mend the hole in the polka-dot pocket of your favorite coat. They are not the same thing, but they are part of the same thing, which is all there is — life living itself through us, moment by moment, one broken beautiful thing at a time.”

Immagine tratta da: Things to Look Forward