Un esame del sangue per la diagnosi dei disturbi psichici? Sarebbe un sogno. La psichiatria è infatti l’unica branca della medicina a non disporre di esami ematologici o radiologici o di altro genere per poter giungere alla diagnosi. Quest’ultima si basa invece ancora pressoché esclusivamente sulla valutazione clinica del/la paziente e su questionari, più o meno strutturati, la cui affidabilità, pur se standardizzata, è spesso oggetto di controversie. Già in passato si era cercato, con esami del sangue e delle urine, di distinguere diversi tipi di depressione, ad esempio quella derivante da una riduzione di serotonina o invece di noradrenalina, in modo da rendere possibile trattamenti differenziati ma l’iniziale speranza non aveva retto ai controlli successivi.
Test, cerotti intelligenti, AI e realtà virtuale
Ora gli sviluppi della neurobiologia da un lato e quelli dell’intelligenza artificiale dall’altro sembrano cominciare a porre rimedio a questa lacuna. Recentemente si sta lavorando a test del sangue che sarebbero in grado di valutare con una certa attendibilità la presenza e soprattutto l’evoluzione del morbo di Alzheimer, una delle forme di demenza. La proteina (P)-tau217 presente nel sangue potrebbe aiutare a identificare gli individui positivi all’amiloide-beta, che non presentano ancora i segni clinici del deterioramento tipico del morbo di Alzheimer ma che hanno maggiori probabilità di svilupparlo molto rapidamente e che quindi necessitano al più presto di un trattamento. Analogamente, si sta lavorando ad un nuovo “cerotto intelligente” composto da microaghi in grado di rilevare marcatori proinfiammatori attraverso il fluido interstiziale cutaneo simulato che potrebbe aiutare a diagnosticare molto presto disturbi neurodegenerativi come il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson. Si stanno sviluppando programmi computerizzati in grado di porre diagnosi di schizofrenia. L’analisi computerizzata del linguaggio dei pazienti sembra infatti offrire la possibilità di una diagnosi di schizofrenia con un margine d’errore minore di quello degli psichiatri e pari a zero. Se infatti gli psichiatri analizzando le modalità comunicative dei pazienti sono in grado di prevedere l’insorgenza di una psicosi (il gruppo di disturbi gravi cui appartiene anche la schizofrenia) nel 79% dei casi, un sistema computerizzato messo a punto da ricercatori di Columbia University, New York State Psychiatric Institute, e IBM T. J. Watson Research Center
ha dimostrato, già nel 2016, un’accuratezza di previsione del 100%. Ne scrivevo qui Ma anche la realtà virtuale è stata utilizzata per porre diagnosi di disturbi psichici, in particolare nel caso di disturbi psicotici, schizofrenia e paranoia, di autismo ma anche nel caso del disturbo ADHD, da deficit di attenzione e iper motricità, disturbi del comportamento alimentare, disturbi d’ansia e depressione.
AI e rapporto terapeutico
Siamo dunque, con la diagnosi dei disturbi psichici assistita da AI, per usare una veccia espressione, a cavallo? Certo possiamo dire che siamo a cavallo dell’intelligenza artificiale. Ma, come al solito la risposta dipende dalla domanda, o meglio dalla correttezza di quest’ultima. È verosimile che nei prossimi anni tanto i progressi della neurobiologia che dell’ intelligenza artificiale consentiranno di giungere a dei percorsi più standardizzati, obiettivi e sicuri per porre diagnosi di diversi tipi di disturbi psichici che oggi ancora fatichiamo a diagnosticare subito con certezza. I miglioramenti attuali e i probabili progressi in un futuro molto prossimo lasciano dunque ben sperare nel senso che lo psichiatra avrà a sua disposizione molte più risorse diagnostiche rispetto a quelle attuali. Questo sarà naturalmente di grande vantaggio soprattutto nel caso di psicosi, autismo, malattie degenerative consentendo di porre diagnosi molto più precocemente e conseguentemente con molte maggiori possibilità di trattamento.
Psichiatria a due velocità?
Si però ci poniamo la domanda da un’altro punto di vista e cioè da quello del paziente, possiamo immaginare che i miglioramenti delle procedure diagnostiche porteranno un beneficio complessivo solo se avverranno all’interno di una sempre più stretta relazione medico-paziente, terapeuta-paziente. Senza la quale la presunta personalizzazione digitale della psichiatria si potrebbe tradurre in una nuova de-personalizzazione. Proviamo ad immaginarci un paziente psicotico quindi alle prese con deliri, allucinazioni e altri disturbi gravi del pensiero associati a un’ angoscia che raggiunge livelli talvolta inimmaginabili. Il vantaggio di una diagnosi precoce e più certa sarà per lui rilevante solo se in queste fasi di accertamento diagnostico, e a maggior ragione poi quando si tratterà di giungere alla terapia, si sentirà accompagnato e sorretto da un rapporto terapeutico impregnato non solo di professionalità ma anche di fiducia, rispetto umanità. Solo in tal modo il paziente non si sentirà completamente solo di fronte alla diagnosi e alle incertezze della terapia. Proviamo invece ad immaginarci un paziente con questi o altri sintomi che di tale accompagnamento professionale venga privato perché le procedure diagnostiche di intelligenza artificiale sono naturalmente più economiche di quelle che implicano ore di lavoro di professionisti. Naturalmente tale privazione non gli verrà presentata come tale ma venduta come la nuova straordinaria possibilità (ai limiti dell’ onnipotenza) di far diagnosi e magari terapia da solo, senza l’intermediazione di una figura professionale. Scenari distopici? Ne scriveva giorni fa Sam Altman, CEO di OpenAI (segnalatomi da @BersaniLeda ) ipotizzando in una serie di Tweet uno scenario in cui l’AI potrà fornire indicazioni mediche a coloro i quali si trovano in condizioni economiche tali da non potersi avvalere dell’assistenza sanitaria
Come sempre si può vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno e certo meglio la AI del nulla ma è anche vero che questa può essere la premessa per giustificare, (anche) in futuro una medicina e una psichiatria a due livelli, quella informatizzata per i più poveri e quella informatizzata ma anche personalizzata dal rapporto in vivo con il terapeuta per i più ricchi.
Ancora più radicale (e decisamente distopico) il filosofo Byung-Chul Han, che nel suo recente “L’espulsione dell’Altro”, sostiene che “ il tempo in cui c’era l’Altro è passato”, sostituito dalla positività dell’Uguale che non consentirebbe alcuna dialettica, alcun confronto, e dunque anche alcun incontro ma solo ingozzamento dell’Uguale fino allo stordimento.
Pur senza giungere a tale distopica radicalità non si può dimenticare quanto Borgna non si stanca mai di ripetere nei suoi libri, che cioè la psichiatria non è se non è rapporto e che non può ignorare la ricerca di senso che è con noi connaturata. Anzi, scrive Maria Popova, recensendo il libro di Meghan O’Gieblyn God, Human, Animal, Machine: Technology, Metaphor, and the Search for Meaning “il fatto stesso che l’era degli algoritmi quasi senzienti ci abbia lasciato ancora più affamati di significato può essere la nostra migliore speranza per salvare ciò che c’è di più umano e vivo in noi.”
Immagine tratta da Hieronymus Bosch: Estrazione della pietra della follia