Elogio dell’imperfezione?

Ho partecipato ieri al convegno “Prevenire e riconoscere i disturbi del comportamento alimentare” tenutosi a Brescia al Museo Mille Miglia. Ben più che un convegno, una giornata intera dedicata ad illustrare le caratteristiche cliniche dei disturbi del comportamento alimentare ma anche a delineare la rete sanitaria e sociale creata a Brescia e provincia per curarli, il progetto cittadino lanciato per la prevenzione degli stessi, nonché nel pomeriggio spettacoli teatrali e workshop artistici aperti a tutti/e.

Con misura 

Chi ha familiarità con questi “eventi” conosce bene il pericolo che vi è insito. In tutto il mondo ma soprattutto in Italia, terra di facondi cerimonieri, è tutt’altro che raro che la manifestazione si trasformi in un patetico appello all’amore, in un retorico discorso autocelebrativo di clinici, politici o amministratori e più frequentemente di tutte e tre le categorie insieme o all’opposto in una polemica reprimenda in cui vengono rimproverate ai malcapitati presenti le colpe della società italiana a partire dall’unità d’Italia se non prima. Mantenere la misura è impresa di non poco conto ed esservi riusciti va a merito degli organizzatori e a vantaggio soprattutto dei fatti che possono essere esposti per quelli che sono.

I fatti dei disturbi alimentari 

Il 5% della popolazione italiana dunque 3 milioni di ragazze e ragazzi (questi in proporzione molto più limitata, fino a pochi anni fa uno su 10 ed ora uno su 9) soffrono di disturbi dell’alimentazione. Considerando poi che le loro famiglie soffrono non meno, si calcola che siano 7 milioni di persone interessate direttamente o indirettamente da questi disturbi. L’esordio degli stessi sta divenendo inoltre sempre più precoce, affliggendo non più solo ragazze e ragazzi delle scuole superiori o dei primi anni di attività lavorativa ma ormai anche ragazze e ragazzi delle scuole medie se non addirittura dell’ultimo anno delle elementari. Le richieste e di consulenza e di ricovero sono inoltre aumentate di oltre il 30% rispetto a prima della pandemia, il ché, a parità di personale e di risorse stanziate, ha provocato un inevitabile ma quanto mai straziante e dannoso allungamento dei tempi di visita e di ricovero. Dal momento che i disturbi dell’alimentazione sono poi disturbi complessi, che si manifestano in modo, spesso molto acuto, sia da un punto di vista fisico che psichico, richiedono trattamenti altrettanto complessi e multidisciplinari per allestire i quali sono necessarie strutture organizzative altrettanto complesse.

Le strutture sanitarie 

Vi deve essere un Dipartimento di salute mentale sensibile al tema, capace di promuovere la collaborazione tra svariati reparti e discipline quali la neuropsichiatria infantile, la psichiatria, la psicologia clinica, la medicina interna, la dietologia, la terapia della riabilitazione, il personale infermieristico specializzato eccetera. Non solo. Bisogna che i responsabili di tali reparti e discipline non si considerino stelle fisse di un firmamento in posa per farsi ammirare ma siano invece professionisti competenti, responsabili, appassionati, aperti alla collaborazione e al gioco di squadra. Solo così si può realizzare una rete ininterrotta di trattamento che va dal medico di medicina generale, all’ambulatorio sul territorio specializzato per la diagnosi e la terapia di questi disturbi (e di quelli che spesso l’accompagnano quali disturbi d’ansia, disturbi depressivi, disturbi di personalità) fino alla struttura residenziale specializzata. Questa a sua volta deve essere organizzata a tre livelli, ambulatoriale, semiresidenziale e residenziale per poter garantire a tutte le ragazze di ragazzi adeguate forme di trattamento nelle diverse fasi della malattia, che è lunga da curare tanto che si calcola che il trattamento duri circa due anni.

Le terapie 

All’interno della struttura residenziale devono essere naturalmente garantite terapie multidisciplinari: mediche, psichiatriche, psicologiche, individuali e di gruppo, nutrizionali, così come assistenza infermieristica specializzata e dei tecnici della riabilitazione. Ma vi sono anche le forme di anoressie più gravi che devono essere ricoverate in reparti di medicina o di neuropsichiatria infantile o di psichiatria. Per non parlare poi delle terapie ambulatoriali che devono far seguito alla fase residenziale. Non basta. Bisogna intervenire inoltre con il supporto e la psico educazione per le famiglie delle malate e dei malati, nonché operare la prevenzione nelle scuole e in tutti i punti di ritrovo delle giovani e dei giovani. Chi può allestire una rete organizzativa e terapeutica così complessa se non il pubblico, il SSN? (A Brescia si è cominciato a farlo già trent’anni fa e la Lombardia ha una specifica legge regionale che prevede strutture adeguate per il trattamento dei disturbi alimentari). E come è possibile per il SSN sobbarcarsi tali oneri se non viene adeguatamente finanziato? Ma anche la prevenzione fatta con informazioni mirate nelle scuole e il sostegno con gruppi di psico educazione ai familiari non bastano più, a detta degli stessi responsabili dei servizi.

Allargare il raggio d’azione 

È necessario allargare il raggio d’azione, come già è stato fatto collaborando con le associazioni delle famiglie delle pazienti, nonché con associazioni di volontariato sociale, ricche di iniziative. Si vogliono coinvolgere ora anche i docenti con gruppi che forniscano loro mezzi per riconoscere al più presto il disagio e al tempo stesso aiutarli a gestire il forte carico emozionale cui sono costantemente sottoposti. Anche le famiglie delle pazienti e dei pazienti hanno spesso bisogno di un sostegno di gruppo più attivo e il personale medico, psicologico, infermieristico deve avere la possibilità di avere regolari supervisioni per meglio gestire conflitti intra e interpersonali.

L’angosciante sofferenza delle ragazze e dei ragazzi 


Mi accorgo solo ora che a furia di raccontare di organizzazioni, istituzioni e terapie non ho ancora fatto nemmeno un cenno alla sofferenza delle ragazze, ben rappresentata al convegno da alcuni loro angoscianti disegni. Anch’io nel mio racconto mi sono verosimilmente fatto prendere la mano dal bisogno di controllo che anima e soffoca al tempo stesso le pazienti, sempre alla ricerca di un’impossibile perfezione, di un controllo ad ogni costo di fronte al turbine della vita nel quale sentono di precipitare. Ma d’altro canto questo è anche il paradosso in cui ci dibattiamo noi adulti (e probabilmente anche noi terapeuti): vogliamo una società perfetta, ci lasciamo trascinare da ritmi indiavolati e aspettative inarrivabili ma vogliamo declamare alle nostre figlie e a nostri figli l’elogio dell’imperfezione. (PS ho finito l’articolo alle 3,40 😉