Temo l‘umo di un solo libro – che in latino suona più aulicamente “Timeo hominem unius libri” – è la frase attribuita a San Tommaso d’Aquino che il mio professore del liceo, il professore per antonomasia, quello che tutti vorremmo aver avuto, citava sempre per metterci in guardia non solo dalle persone che hanno letto un solo libro, ma anche da quelle che, pur avendone letti o anche scritti molti, hanno una conoscenza dogmatica e dunque possono essere pericolosamente rigidi e rigidamente pericolosi nelle loro convinzioni.
Social-dogmi
Mi sembra che ciò accada sempre più frequentemente e sempre più dogmaticamente anche per quello che riguarda i social, ormai visti come il male assoluto, la nuova peste. Vengono inoltre considerati come nuovi untori non solo i proprietari delle piattaforme – che obiettivamente sono le mille miglia lontano dall’essere degli stinchi di santo e sembrano anzi incarnare, in forma nuova, il vecchio modello degli uomini di successo e di potere sociopatici – ma anche chi, ormai sempre più raramente e timidamente, si azzarda a dire che i social sono un mezzo, meglio un Medium, e come tali dunque dovrebbero essere valutati dall’impiego che se ne fa. Appartenendo a questa ristretta schiera ed avendo sfogliato anch’io qualche libro per poterne scrivere, come coautore, uno, proprio sulle illusioni dei social, sono stato particolarmente lieto di leggere sul Guardian un articolo che, citando studi quantomai approfonditi e scienziati quantomai autorevoli, dimostra, dati alla mano, che non ci sono prove che l’uso degli schermi digitali causi danni cerebrali nei bambini.“ I risultati (di un studio del 2023 condotto per due anni su 12.000 bambini negli Stati Uniti) non supportano l’idea che l’attività digitale influenzi negativamente l’organizzazione cerebrale” (Miller et al., 2023). Non è stata infatti riscontrata alcuna relazione significativa tra tempo trascorso sugli schermi e lo sviluppo cerebrale né è stata rilevata alcuna alterazione nella maturazione cerebrale dovuta agli schermi.
Chiarezza
Credo sia utile premettere che né gli autori dello studio, né i ricercatori intervistati (né tanto meno io, che conto peraltro come il due di spade quando briscola è coppe) consigliano ovviamente un uso indiscriminato e illimitato dei social. Il messaggio che esprimono e che l’articolo di Amy Fleming trasmette bene, con benvenuto humor britannico su un tema spesso trattato con pathos tragico, è che i social, così come mille altre cose della vita – esperienza per definizione pericolosa che si conclude non a caso con la morte – sono naturalmente un pericolo, come lo possono essere uscire di casa, attraversare la strada, andare in auto, in bicicletta, fare tuffi, correre, bere alcool etc e che è doveroso e saggio dosarli in modiche quantità e alternarli al contatto personale, alle passeggiate in campagna, alla lettura di un libro allo sport e a tutto quello che la vita offre, appunto perché è sempre pericoloso votarsi ad un solo libro, Santo, ad una sola attività, ad una sola parte della vita stessa.
Brain Rot e populismo scientifico
È tuttavia altrettanto pericoloso presentare convinzioni personali, facilmente orecchiabili e socialmente condivisibili come comprovate teorie scientifiche, producendo, in una sorta di “populismo scientifico”, disinformazione e allarmi ingiustificati, che si possono poi tradurre in comportamenti errati, ansiogeni e dunque nocivi per i singoli e la convivenza sociale nonché per la credibilità della scienza stessa. Si è infatti creata negli ultimi anni una sorta di narrativa dominante secondo la quale l’uso eccessivo degli schermi e dei social media starebbe “riprogrammando” il cervello dei giovani, causando un declino cognitivo e una crisi di salute mentale. La metafora che ne è scaturita è quella del Brain rot, nominata, come recentemente scrivevo, parola dell’Anno Oxford 2024, traducibile in italiano con “marciume cerebrale. Più esattamente, sul sito della stessa Oxford University Press “Brain rot” è definito come “il presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona, soprattutto quando considerato come il risultato di un consumo eccessivo di materiale (in particolare contenuti online) ritenuto banale o poco stimolante. Inoltre: qualcosa caratterizzato dall’essere probabile causa di tale deterioramento”. Il termine è dunque utilizzato per descrivere tanto la causa (i social) che il loro presunto effetto (il deterioramento cerebrale). In realtà, sostiene Andrew Przybylski, Professore di comportamento umano e tecnologia all’Università di Oxford, Il concetto di “brain rot” e cioè che i social media riprogrammino in senso negativo il cervello dei giovani è un costrutto mediatico, non una realtà scientificamente provata.
L’origine della tecno-ansia digitale
Nell’articolo del Guardian viene anche ricostruito il percorso che ha portato a sempre maggiori ondate di panico nei confronti della tecnologia digitale. L’origine risale addirittura al 2005 quando uno “studio”, citato dalla stampa ancora oggi, sosteneva che usare l’email riducesse il QI più della cannabis. Successivamente si è scoperto che lo “studio” non esisteva affatto – era semplicemente un comunicato stampa, il risultato di una sola giornata di consulenza svolta da uno psicologo per Hewlett Packard. Oltre a un sondaggio sull’uso delle email, lo psicologo aveva condotto un esperimento di laboratorio della durata di un solo giorno, in cui otto partecipanti mostravano una riduzione delle capacità di risoluzione dei problemi quando apparivano notifiche di email sui loro schermi e i loro telefoni squillavano. Più tardi scrisse: “Si tratta di un effetto di distrazione temporaneo – non di una perdita permanente di QI. Le equivalenze con il fumo di cannabis e la perdita di sonno furono fatte da altri, contro il mio parere.”
Studi di parte e di bassa qualità
Negli anni successivi si è assistito, a detta di Przybylski, a una serie di studi di bassa qualità che hanno cercato di collegare i social media al declino cognitivo. Tali studi tendono ad avere campioni ridotti, nessun gruppo di controllo e si basano su semplici associazioni invece di dimostrare una relazione causale. Quest’ultima viene però inferita nella pubblicistica a carattere popolare così come nella popolazione che, mette in relazione l’invenzione dell’iPhone nel 2007, la popolarità di Instagram dal 2012 e il peggioramento della salute mentale. Shane O’Mara Professor of Experimental Brain Research at Trinity College Dublin, aggiunge che gli studi che riportano cambiamenti nella struttura cerebrale possono sembrare particolarmente allarmanti, ma spesso si concentrano su persone con ”uso problematico di internet”, piuttosto che sulla popolazione generale. Il problema di questi studi, spiega O’Mara, è soprattutto “che non possono determinare il rapporto causa-effetto. Potresti usare internet in modo eccessivo perché avevi già una predisposizione in tal senso. Semplicemente non lo sappiamo, perché nessuno ha condotto gli studi di causa-effetto necessari – sono troppo vasti e complessi”, essendo innumerevoli i fattori implicati. Oltretutto, la struttura del cervello cambia per tutta la vita. Per esempio, è stato osservato che la materia grigia diminuisce durante la gravidanza, per poi ricrescere in seguito, insieme ad altre modifiche cerebrali. Il cervello è straordinariamente plastico ed aggiungo io, si modifica anche dopo una o più sedute di psicoterapia, il ché non vuol dire che la psicoterapia o lo psicoterapeuta riprogramma il cervello dei/delle suoi/sue pazienti ma semplicemente che il “cambiamento” che noi avvertiamo durante una psicoterapia (se funziona) si traduce anche in modificazioni più o meno significative delle connessioni cerebrali. (Per inciso anche nel famoso riflesso condizionato del cane di pavloviana memoria si creano nuove connessioni cerebrali).
The Anxious Generation
Dovrebbe teoricamente essere informato delle complesse basi neurobiologiche della nostra mente così come delle complessità della nostra società anche anche lo psicologo sociale Jonathan Haidt che nel suo libro “The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness”, analizza le conseguenze dell’uso degli smartphone e dei social media sulla salute mentale degli adolescenti progressivamente peggiorata negli ultimi anni con un aumento significativo di ansia, depressione e autolesionismo tra i giovani.
Haidt attribuisce sic et simpliciter questo fenomeno a due principali cambiamenti nella vita dei giovani: la diminuzione del gioco libero e non strutturato, fondamentale per lo sviluppo emotivo e sociale, e l’aumento dell’uso dei dispositivi digitali. Scrive Haidt “Between 2010 and 2015, the social lives of American teens moved largely onto smartphones with continuous access to social media, online video games, and other internet-based activities,” “This Great Rewiring of Childhood, I argue, is the single largest reason for the tidal wave of adolescent mental illness that began in the early 2010s. Haidt sottolinea come la vita mediata dal telefono renda difficile essere pienamente presenti con gli altri quando si è in loro compagnia e stare in silenzio con se stessi quando si è soli e commenta “Questa è la grande ironia dei social media: più ti immergi in essi, più ti senti solo e depresso” Per affrontare questa problematica, Haidt propone diverse soluzioni, tra cui ritardare l’accesso degli adolescenti agli smartphone fino al liceo e alle piattaforme di social media fino ai 16 anni, oltre a promuovere ambienti scolastici senza telefoni
Critiche metodologiche a Haidt, story-teller dotato, senza prove
In un approfondito articolo recentemente apparso su new repubblic vengono mosse svariate critiche metodologiche alle ricerche di Haidt. In particolare gli studi di Haidt non sarebbero statisticamente attendibili, soffrirebbero di bias di pubblicazione tali per cui ricerche che mostrano effetti negativi ricevono più attenzione rispetto a studi con risultati nulli o positivi e soprattutto sarebbero fondati su ricerche inconsistenti.
Una recente meta-analisi di studi sperimentali giunge a conclusioni molto diverse da quelle di Haidt. “Tutti gli studi, a prescindere dall’esito, presentano debolezze abbastanza evidenti legate alle caratteristiche della domanda. Pertanto, non è chiaro se questi disegni di studio siano in grado di rispondere a domande causali. Ciononostante, l’evidenza meta-analitica degli effetti causali non è statisticamente diversa da zero.“ ha scritto Christopher Ferguson in un recente numero di Psychology of Popular Media.
Altri fattori più plausibili per la crisi della salute mentale giovanile:
Come avevo già indicato in un articolo sulla crisi della salute mentale giovanile, The Lancet Psychiatry Commission on youth mental health ritiene che a determinare l’attuale crisi della salute mentale dei giovani siano molteplici cause, sociali, economiche e culturali. Svariati autori, tra cui Wilkinson e Pickett, hanno dimostrato l’impatto negativo sulla salute mentale dell’ineguaglianza, inclusa l’ineguaglianza intergenerazionale e il trasferimento di ricchezza, la violenza di ogni tipo, la marginalizzazione di molti gruppi, l’emigrazione dovuta a guerre, conflitti e cambiamenti climatici. I giovani sono particolarmente sensibili alle condizioni sociali, politiche ed economiche dominanti e alle forze strutturali, e gli effetti di questi fattori influenzano la salute mentale lungo tutto l’arco della vita. Inoltre l’impatto dei social media varia a seconda del contesto individuale: per alcuni può essere negativo, per altri una risorsa.
Difficile dunque pensare di poter ricondurre tutto ai social media, ma certo la semplificazione di causa ed effetto è più accattivante e comoda per poter attribuire ad alcuni untori digitali – senza dubbio mossi dalla voracità del guadagno e del potere – la colpa di tutto. Moralismo e scienza tuttavia difficilmente si accompagnano.
Uno studio scientifico del 2023: “Impact of Digital Screen Media Activity on Functional Brain Organization in Late Childhood” (Cortex, 2023)
Uno studio del 2023, condotto per due anni, su un campione rappresentativo di 12.000 bambini negli Stati Uniti, (da Jack Miller, Kathryn L. Mills, Matti Vuorre, Amy Orben e Andrew Przybylski), ha analizzato il rapporto tra l’uso degli schermi digitali e lo sviluppo cerebrale nei bambini tra i 9 e i 12 anni, utilizzando dati dell’ABCD Study, il più grande studio longitudinale sullo sviluppo cerebrale nell’infanzia.
Gli obiettivi dello studio erano di testare l’ipotesi che l’uso intensivo di dispositivi digitali modifichi l’organizzazione funzionale del cervello; valutare se i bambini con un uso più elevato degli schermi mostrino segni di funzionamento cerebrale disadattivo, analizzare gli effetti a lungo termine dell’uso degli schermi sulla maturazione cerebrale.
Ecco i risultati, che mi permetto di elencare in una sorta di lista per renderli ancora più chiari:
Utilizzando scansioni fMRI, non è stata trovata alcuna relazione significativa tra uso degli schermi e sviluppo cerebrale
“I risultati non supportano l’idea che l’attività digitale influenzi negativamente l’organizzazione cerebrale” (Miller et al., 2023).
Non sono emerse differenze significative nella connettività cerebrale tra bambini con alto e basso uso degli schermi.
L’uso degli schermi digitali non ha alcun impatto sulla traiettoria di sviluppo cerebrale nel tempo
Dopo due anni di osservazione, non è stata rilevata alcuna alterazione nella maturazione cerebrale dovuta agli schermi.
La correlazione tra uso degli schermi e problemi di salute mentale è minima.
L’analisi della Child Behavior Checklist (CBCL) ha mostrato che i punteggi di ansia, depressione e aggressività non sono predetti dall’uso degli schermi.
L’associazione tra tecnologia e problemi di salute mentale spiega meno del 3% della variabilità nei sintomi psicologici.
Conclusioni provvisorie
Naturalmente questo non sarà l’ultimo studio fatto sulla correlazione tra social e salute mentale dei giovani. È naturalmente auspicabile che ne vengano fatti molti altri e che si arrivi a chiarire correlazioni che ora non è ancora possibile interpretare correttamente. Come sempre nella scienza, vi saranno tesi discordanti, nuove ipotesi, nuove soluzioni e nuove domande. Credo però che, a maggior ragione nello stato di diffusa angoscia in cui ci troviamo attualmente, tener conto di questi pur provvisori risultati e magari contrapporli alle ansiogene – e al tempo stesso accomodanti in quanto omogenee – riflessioni che circolano soprattutto nel nostro paese sia un utile esercizio per opporsi alle persone di un solo libro. Leggevo non più tardi di ieri sulla newsletter del Corriere della Sera in una peraltro molto bella ed approfondita intervista di Elena Tebano al Prof Riva, autore di „Io, noi, loro. Le relazioni nell’era dei social e dell’IA“: “mentre l’empatia fisica nasce dall’osservazione diretta delle emozioni altrui, online viene sostituita dal contagio emotivo”. Cosa dirò agli amici con i quali la scintilla dell’empatia è scattata proprio sui social (e poi si è consolidata online)? Scusami, caro amico, era solo contagio emotivo…