Il 28 giugno 1919 due semi sconosciuti rappresentanti del governo tedesco, costretti nell’angolo del più fastoso salone di Versailles, il palazzo per antonomasia della gloria francese, firmarono il trattato di pace che, ponendo fine alla prima guerra mondiale, voleva dar vita, con la Società delle Nazioni, ad un nuovo ordine mondiale senza più guerre. In nome del loro Governo, che aveva rifiutato di presenziare, sottoscrissero quanto le nazioni uscite vittoriose dalla guerra (Francia, Regno Unito e USA) avevano imposto alla Germania: riconoscersi come unica colpevole della guerra, saldarne i debiti, cedere tutte le colonie d’oltremare…. Fu una “pace eccessiva, troppo onerosa”, scrive Jörn Leonhard, Professore di storia occidentale all’università di Freiburg im Breisgau. La pace sovraccaricata è anche il titolo del suo monumentale saggio recentemente pubblicato Der überforderte Frieden
dedicato appunto alle (tragiche) conseguenze di quella pace che, insieme ad altri fattori, contribuì a generare una guerra ancora più tragica.
Leonhard afferma con chiarezza che fu un grave errore non far partecipare alla preparazione di quel trattato i vinti, in particolare la Germania, evitare ogni comunicazione con i suoi rappresentanti, far parlare, nel silenzio, la simbologia della punizione e dell’umiliazione dando così la migliore opportunità al governo tedesco di presentarsi agli occhi dei suoi (nuovi) elettori come la vittima di soprusi e congiure. Fu l’avvio di quel revanschismo nazionalista e populista che insieme a molti altri fattori, aprì la strada a fascismo e nazismo. Pienamente consapevole che nessuna epoca storica si ripete, Leonhard scorge tuttavia non poche analogie tra l’insicurezza e l’instabilità di allora e quelle attuali. Pur se i contesti sono profondamente mutati e i motivi di instabilità pure, le illusioni e le scorciatoie del nazionalismo e del populismo di fronte all’instabilità rimangono inalterate, vengono solo rispolverate e presentate come nuove.
In realtà, come osserva Chiara Volpato nel suo prezioso saggio “Le radici psicologiche della disuguaglianza”, “la paura di cadere, il timore di perdere uno status sociale meno consolidato di quanto si voleva credere” è “un sentimento onnipresente in tutti i ceti sociali”. La paura di cadere si accentua inevitabilmente nei tempi di crisi.
“Sul piano psicologico le crisi, come tutti i cambiamenti repentini e non voluti, causano insicurezza, angoscia, paura tutti sentimenti derivanti dalla sensazione che si stia perdendo il controllo sul futuro con conseguenze molteplici sul piano sociale e politico”(pag. 1259) “Le crisi aumentano il pessimismo, l’incertezza, la sfiducia in sè, negli altri, nei rappresentanti politici, la concorrenza tra categorie sociali e l’ostilità verso minoranze e immigrati” (pag 1261). “ Quello che sta accadendo oggi in molti paesi – scrive ancora la Volpato- può essere interpretato alla luce della teoria della deprivazione relativa, secondo la quale le persone percepiscono più acutamente la deprivazione non tanto quando sono realmente deprivate ma quando sentono di stare peggio nei confronti di altri con cui si confrontano (pag 1262-1263). Le parole di Karl Marx, citate dalla stessa Volpato, lo spiegano molto bene “ Una casa per quanto sia piccola, fintanto che le case che la circondano sono ugualmente piccole, soddisfa a tutto ciò che socialmente si esige da una casa. Ma se a fianco della piccola casa si costruisce un palazzo, la casetta si ridurrà a una capanna”. Ecco, la casa del ceto medio occidentale, anche obiettivamente segnato dalla recessione e dalla conseguente precarietà, si è trasformata negli ultimi anni in una capanna a fronte di palazzi dell’upper class sempre più sfacciatamente ricchi.
In realtà ancor prima di cadere abbiamo paura che ciò ci possa accadere. Ancor più e ancor prima della perdita, è la paura della perdita a infiammare gli animi e di conseguenza le inclinazioni politiche degli elettori. “È la paura di deprivazioni future a provocare l’opposizione all’immigrazione da parte dei più abbienti” (pag 1292). È stato possibile dimostrare che il successo dei partiti populisti di destra non è sempre e solo dovuto a alla crisi economica ma si realizza spesso anche quando l‘economia è in espansione. È motivato proprio dalla paura degli elettori della classe media di perdere il favorevole stato sociale acquisito. “ il leader populisti interpretano in modo creativo le condizioni economiche-oggettivamente buone- della propria nazione allo scopo di seminare timori. Dipingono la società e la sua economia come campi di battaglia nei quali si combatte una lotta senza quartiere tra élites corrotte, popolo virtuoso (la gente comune che lavora e paga le tasse), immigrati e richiedenti asilo e minano la fiducia nella democrazia descrivendo il popolo come vittima dell’alleanza tra gli altri due gruppi”. (pag 1314) Sfruttando la la costante paura di cadere della classe media, i populisti “ suscitano in essa la convinzione di essere oggetto di discriminazione, un processo chiamato di vittimizzazione competitiva che conduce ampi segmenti sociali a essere particolarmente scontenti della propria posizione e di quanto pensano di ricevere dal sistema.” (pag 1315).
È successo ad esempio nella Svizzera in espansione degli anni 60-70 nella quale, secondo la celebre frase di Max Frisch, si “cercavano braccia” che facevano comodo all’economia dello sviluppo ma “arrivarono uomini” (soprattutto italiani) che facevano paura, perché diversi, “violenti”, “propensi a delinquere“, “con il coltello”, “le donne velate” e “i matrimoni combinati”. La paura della sostituzione etnica (che allora si chiamava Überfremdung, eccessiva esterizzazione) portò, in pieno boom economico ma in un’atmosfera di ostilità e razzismo verso i lavoratori stranieri, a un referendum per cacciarne almeno 300.000. Venne sconfitto per poco, solo 100.000 voti, il 46 per cento contro il 54 per cento. Ho brevemente riassunto la storia di quegli anni in questo Thread
Da quel momento in poi per fortuna le condizioni di lavoro e di vita degli italiani in Svizzera migliorarono sensibilmente al punto che gli italiani sono divenuti ora uno dei migliori esempi di integrazione riuscita.
È facile descriverci ex post come migranti modello, regolari, lavoratori instancabili e adattabili e attribuire a queste nostre nobili doti le ragioni del successo. In realtà puzzavamo di aglio, pecorino e sporcizia, facevamo quanto a violenza non meno paura degli attuali migranti ed eravamo anche clandestini in forma ad es. di bambini nascosti negli appartamenti e costretti a parlare sottovoce per non venire denunciati.
Come esseri umani abbiamo sempre migrato, migriamo (258 milioni nel 2017 con un aumento del 49% dal 2000, migreremo sempre di più per motivi climatici oltre che lavorativi, economici, culturali, sociali. Perché allora negare l’evidenza? Rifiutare a priori la migrazione che è una delle caratteristiche della nostra specie? Rifiutare a chi cerca miglior fortuna e a noi stessi un briciolo di umanità? Inscenare stupide prove di forza ? Cacciare dal tavolo delle trattative i vinti di oggi che potrebbero essere i vincitori di domani?
Tutti abbiamo paura di cadere, più alti costruiamo i nostri muri, più forte sarà la paura di precipitare non riuscendo a respingere l’assalto di chi da fuori pone l’assedio. Volendo, siamo capaci di interazioni più intelligenti e produttive di quelle belliche. Se amarsi è troppo, si potrebbe almeno tentare di conoscersi e, con un po’ di regole condivise, collaborare. Ad es in Svizzera, Germania USA, Sud-America, pur tra mille difficoltà, ci siamo riusciti. Forse sarebbe il caso di studiare cosa facilita l’integrazione anziché proclamarne l’impossibilità a priori. Forse aiutano a riflettere le parole, segnalatemi da @F_Memini, di una filosofa italiana residente all’estero, Francesca Rigotti:
Semplice e efficace e all’apparenza “naturale”, lo slogan che grida “prima noi”! Che cosa di più ovvio, umano si potrebbe dire, che proteggere i nostri familiari, compaesani, concittadini, quelli come noi? Lo affermava Cicerone, lo ripeteva Gesù di Nazareth (ama il tuo prossimo, cioè il tuo vicino, quello della tua tribù). Nel libro cerco di spiegare come questo argomento abbia probabilmente radici biologiche (la protezione della propria stirpe) ma anche implicazioni filosofiche, e come entrambe siano fondate sulla (falsa) analogia tra patria e genitorialità, cittadini e figli. E’ un’analogia che non regge, come non regge l’idea che la patria sia qualcosa di speciale e di sacro, che la si debba amare e ad essa ci si debba sacrificare. Nessuno sceglie di nascere in un paese, e la mancanza di scelta annulla l’obbligo. Chi invece esalta l’analogia e la segue letteralmente, non avrà fatto che erigere una barriera, elevare un nuovo muro tra “noi” e “voi/loro”. Chi governa sfruttando l’analogia per i suoi scopi sovran-populisti ne approfitta per mettere “i nostri” contro gli altri, secondo l’antico principio del “divide et impera”. Per dirla ancora una volta con quello spirito geniale che fu Giuseppe Giusti, ancora in “Sant’Ambrogio”, tutto quest’odio istillato e coltivato ad arte “giova a chi regna dividendo, e teme/popoli avversi affratellati insieme”.