In quale fase della pandemia ci troviamo? Dal punto di vista epidemiologico è certo fondamentale sapere se la curva si è finalmente appiattita, il picco rispettivamente il plateau passati, quando e come la curva potrà finalmente scenderà. Credo che, proprio perché privati della nostra libertà di movimento, anche se per il nostro bene, avremmo diritto ad una spiegazione. Il presidente della commissione tecnico scientifica che consiglia il governo dovrebbe fornirci un ragionevole modello per capire l’andamento della pandemia, lo scopo delle misure restrittive, tempi e modi dei probabili allentamenti delle stesse magari a confronto con altri paesi. Anziché essere trattati come scolaretti che fanno o meno i bravi stando a casa, possiamo ambire, credo, a essere considerati adulti consapevoli che gestiscono attivamente un rapporto di rispetto e di fiducia con lo Stato in cui vengono scambiate informazioni, tutele, comportamenti di prevenzione e cura.
Potremmo però anche chiedere a noi stessi in quale fase psicologica ci troviamo. Seguendo il celebre modello di elaborazione del lutto della Kübler-Ross sappiamo che di fronte a un lutto reagiamo con un percorso tutt’altro che lineare costituito da cinque fasi principali, quella della negazione, della rabbia, del patteggiamento, della depressione e dell’accettazione (cui farebbe seguito secondo Kessler – citato e tradotto dall’ottimo Dottor Dedalo – la fase del significato).
La maggior parte di noi, dopo le resse alle partite di calcio, sulle piste da sci, sui treni, ha dovuto riconoscere che la pandemia è una tragica realtà che ha sconvolto le nostre vite non solo e non tanto per la letalità quanto per le conseguenze sulla vita civile e sociale. E qui devo fare io per primo ammenda per non averlo voluto o saputo capire fin dall’inizio, bagatellizzandone la gravità. Non mi sembra invece che abbiamo superato la fase della rabbia che sembra anzi esprimersi in forme sempre più evidenti dalla disobbedienza alle norme, all’aggressione e colpevolizzazione di singoli (Runner, mamme con bambini all’aperto, i responsabili di assembramenti), o di categorie (proprietari delle seconde case, la sanità privata, i settentrionali in genere). Alla rabbia si sovrappone poi la fase del patteggiamento. Ci viene richiesto di rimanere a casa almeno fino al 3 maggio e noi cerchiamo di fare i bravi fino a quella data nella magica convinzione che poi tutto ritornerà ad essere normale. Progressivamente ci rendiamo però conto che la normalità è tutt’altro che scontata, non sappiamo se e come riprenderà il lavoro, se avremo ancora un lavoro e in che tipo di società potremo esercitarlo. Gli appuntamenti futuri, ufficiali e segreti, vengono fagocitati dalla pandemia, le vacanze svaniscono, la stessa nostra progettualità viene disincentivata e svuotata di ogni senso. La morte si avvicina sempre di più e con essa il dolore e la tristezza. Per alcuni di noi le statistiche dei decessi hanno smarrito l’impersonalità dell’anonimato e sono divenute persone a noi care sottratteci dalla morte in assenza per di più del pietoso atto del congedo.
Ma perdita e tristezza, anche nella forma anticipatoria della perdita futura, sono appunto dolorosi, “il lutto – scrive Freud in Caducità – è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare mai ai quali si riconducono altre cose oscure.” Lasciar accadere dentro di noi la tristezza, che sembra volerci rubare la vita, è estremamente difficile, faticoso, doloroso. Ci proteggiamo allora (inconsciamente) con altri sentimenti che ci distolgono dalla sofferenza della tristezza: con la rabbia, la Schadenfreude (la gioia per la sofferenza altrui), la delazione e lo lo svergognamento delle presunte colpe altrui. Della rabbia si è già detto. Siamo diventati insofferenti, irascibili. Basta il gesto imprevisto
di una persona in una fila per provocare malumori e liti. Mezze frasi sadiche pronunciate o addirittura scritte sui social lasciano intendere che ai settentrionali sta bene, i bergamaschi se la sono cercata perché alcuni di loro erano andati alla partita e così infamando. Più sottile ma non meno aggressivo è l’atteggiamento di chi denuncia online e condanna i comportamenti riprovevoli degli altri, rasentando la delazione di 1984. È il “pandemic shaming” di cui si occupa un bel l’articolo sul Guardian nel quale si descrive come “Thousands of people are blaming, naming, and shaming others for their improper pandemic practices” arrivando ad augurare loro la morte nelle forme più crudeli. Non lo fanno per altruismo ma sulla base di meccanismi molto arcaici di regressione scatenati dalla paura in cui la vergogna, meglio lo svergognare viene utilizzato come una pericolosa minaccia.
Dr Aaron Balick, a psychotherapist from London and author of The Psychodynamics of Social Networking, argues that online shamers are “hardly doing it for the safety of society. They’re doing it because they get to be right and someone else gets to be wrong.”
Balick says pandemic shaming may be caused by fear, as “people tend to regress when they’re frightened”. Yet like Tangney, he believes shaming is counterproductive and potentially dangerous. “Shame is one of our most primitive feelings. It does hurt, very, very deeply, and if it happens on a grand scale, like on Twitter, it can be psychologically traumatic,” he says.
Forse è più utile chiedersi in che fase ci troviamo noi, non gli altri.
Immagine tratta da @IrenaBuzarewicz