Italiani, innovatori per tradizione

“La storia non è la scienza di chi fa ricerca sul passato. È piuttosto la disciplina di chi studia il tempo”. Questa frase è forse una delle chiavi di lettura di “Eppur s’innova”, l’ultimo saggio di Luca De Biase, Luiss University Press, che passa in rassegna passato, presente e futuro degli italiani e della società italiana alla ricerca del modello italiano d’innovazione.
Allievo di Braudel e quanto mai sensibile al concetto di “lunga durata” del grande storico francese, De Biase si trova a proprio agio a ricercare nella cultura tardo-medievale e rinascimentale le basi di quel peculiare sviluppo, tale per cui gli italiani sono spesso con un piede sulla soglia di un mirabile progresso ma con l’altro a un passo dall’inesorabile declino. “Da mille anni, l’Italia vista da fuori provoca opinioni contrapposte. Ammirazione e critica, speranza e delusione, desiderio e sospetto. Almeno dal Duecento se non da prima ancora, il commercio, la produzione, la finanza e il soft power italiano non cessano di farsi notare in Europa, insieme alla fragilità delle tessere che compongono il mosaico politico italiano.” De Biase si rifà qui proprio a Braudel che, nel suo libro sulla storia d’Italia, Le modèl Italien, riconosce alla società italiana, pur priva di uno Stato e di autonomia, tra il Quattrocento e il Seicento, uno straordinario fulgore, tanto che non è insensato immaginare il nostro paese di allora “come un’economia alle soglie della rivoluzione industriale”. Il riflesso di tale luce continua a brillare nel Grand Tour, il viaggio attraverso l’Italia che tra il Settecento e l’Ottocento le famiglie delle classi dirigenti europee offrivano ai loro figli come “parte essenziale del loro percorso di formazione”. Valeva la pena, come scrive Mazzocca, citato da de Biase, sottoporsi a infinite difficoltà organizzative e a mille disavventure pur di fare “un’esperienza unica, immersiva, alla scoperta della storia, dell’arte, della bellezza naturale, della gioia di vivere e di tutte le infinite magie del cosiddetto “Bel Paese”. Un’esperienza formativa ma anche identitaria perché la cultura italiana non veniva percepita come altra ma come un “lume” da far proprio. Dunque, sostiene De Biase, “i caratteri più radicati di questo primo abbozzo di modello italiano” sono “ una società più forte della sua politica e .. un’attrattività internazionale che segue percorsi più culturali che politici”. Dall’unificazione nazionale tuttavia non venne un impulso alla ricerca culturale e scientifica, anzi le classi dirigenti succedutesi al potere in Italia fino ad oggi hanno storicamente destinato scarse risorse alla scienza e all’università e non hanno saputo vedere nella cultura scientifica un abilitatore dello sviluppo economico. Tale situazione si è protratta anche nel dopoguerra quando il cosiddetto miracolo economico è stato consentito dalla connessione tra “scarsi investimenti in ricerca scientifica e bassi salari… i bassi salari spiegano come si sia potuta imprimere una crescita spettacolare in assenza di investimenti in ricerca adeguati”. A tutt’oggi il Digital Economy and Society Index (DESI) 2021 della commissione europea mostra che l’Italia è l’ultima in classifica, in Europa, per disponibilità di personale dalle capacità e competenze al passo con la tecnologia”.
Conclusa questa prima parte di carattere più propriamente storico, da storico, De Biase continua il suo viaggio alla ricerca del modello italiano da giornalista economico. Consapevole che l’Italia “media” non eiste e che è invece una “realtà complessa e profondamente variegata, in parte agganciata ai territori più avanzati d’Europa e in parte simile all’est Europa, va a scoprire gli italiani che “con poche risorse sono riusciti ad ottenere risultati eccellenti”, altra caratteristica del modello italiano. Nell’intervistare, da psicologo accorto, i protagonisti della migliore e più sostenibile innovazione digitale, dalla Carnia a Catanzaro, passando per Lombardia, Veneto, il prodigioso distretto dell’Emilia e mille altre realtà imprenditoriali locali e internazionali insieme, De Biase scopre e ci fa scoprire le caratteristiche sociologiche ed economiche del modello italiano: dalle tradizioni innovative dell’artigianato, all’intuizione narrativa, dall’innovazione mobile e sostenibile, all’umiltà intesa come “saper essere vicino alla terra” (da Humus), “una postura di ricerca e di profondo attivo realismo” contrapposta all’arroganza, dall’open Innovation all’harmonic Innovation. Veniamo così a conoscere realtà imprenditoriali, lavorative e di studio serie, aperte al confronto, alla ricerca e al futuro, calate nel territorio, sostenibili e sensibili, nelle quali la passione per la bellezza si coniuga con la capacità della relazioni umane e con la tecnologia più innovativa. Non si tratta di storytelling ma di un’ analisi critica di tendenze economiche, sitemi relazionali, sociali ed industriali, nella quale De Biase riprende i suoi consueti panni di scopritore e narratore del futuro. Lo accompagnano nell’ultima parte del viaggio due filosofi quali Luciano Floridi, il “creatore” dell’attuale filosofia dell’informazione e Telmo Pievani, evoluzionista, filosofo della scienza, che ha dedicato riflessioni significative all’inatteso nella scienza, alla serendipità.
“Il modello italiano – conclude De Biase – è composto da due componenti temporali fondamentali. Una componente è di lunga durata e si ricollega alle lente dinamiche evolutive della cultura italiana… una seconda componente è quella che riguarda la relazione con la contemporaneità: il modello italiano è aperto ad ascoltare le sollecitazioni del presente, in molti casi non può farne a meno. E questo accelera l’evoluzione o in certi casi aggiunge caratteri nuovi al modello tradizionale.”

Vivo da più di vent’anni in Svizzera, dove tutto (o quasi!) sembra funzionare alla perfezione. Poi un semaforo si blocca sul rosso ed è il caos. Non perché gli automobilisti si facciano prendere dal panico ma perché, rispettando pervicacemente le regole, non si muovono né viene loro in mente di poterlo fare. Per creare qualcosa di nuovo bisogna potersi immaginare uno scenario diverso rispetto a quello in cui ci si trova abitualmente ed è anche utile essere motivati a farlo. In Italia dobbiamo esserlo per forza, il ché naturalmente non è solo un bene. Ci tiene però allenati a immaginare altri scenari, un uso alternativo degli stessi strumenti per altri scopi, ad avere, come direbbe Balint, dei flash. Quello che in Italia talvolta scarseggia è piuttosto la capacità di portare a compimento il cambiamento perché anche altri lo possano usare, farlo diventare  parte di una „progettazione visionaria“, accontentandosi invece di „spartirsi le risorse pubbliche in modo equilibrato tra fazioni, famiglie, territori, corporazioni e aziende“. 


Immagine: Michelangelo Buonarroti, La creazione di Adamo